La vera fede

Piccolo strumento di formazione
alla luce del magistero della chiesa

A cura di Stefano Biavaschi

“Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina,

ma, per il prurito di udire qualcosa,

gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie,

rifiutando di dare ascolto alla Verità per volgersi alle favole.

Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze,

compi la tua opera di annunziatore del Vangelo,

adempi il tuo ministero.” (2Tm 4,3-5)

Perché diciamo che la nostra fede è vera? Perché si fonda in Gesù che è verità. Ma spesso non sappiamo bene quali siano le cose da credere e come crederle. Ecco perché abbiamo ritenuto opportuno offrire una piccola raccolta di quelle più importanti, realizzando un sintetico sussidio che può essere utile per la formazione personale. La fonte cui ci siamo riferiti principalmente, oltre agli Atti dei diversi Concili, è il Catechismo della Chiesa Cattolica ( anch’esso frutto del lavoro di tutti i Vescovi del mondo) perché in esso vengono esposte con grande chiarezza e completezza tutte le verità di Fede, tanto che Giovanni Paolo II lo indicò come “punto di riferimento sicuro” per tutti i cristiani e gli annunciatori della Parola.

Gli argomenti qui trattati, che certo non esauriscono tutto il tesoro della Rivelazione, ne costituiscono però il nucleo fondamentale: i comandamenti, la figura di Gesù, La Chiesa ed i sacramenti, la vita di grazia e il mistero escatologico.

Abbiamo insistito maggiormente su quegli aspetti meno noti o più trascurati, su cui spesso non vi è sufficiente chiarezza. Siamo convinti che lo “stato di grazia”, operato dalla fede, conferisca un nuovo modo di usare la ragione, consentendo di arricchire la visione della realtà, che, guardata con gli occhi di Dio, acquista improvvisamente quella profondità che già il nostro cuore cercava.

Anzi, dinanzi all’attuale crisi del senso, derivata dall’aver perso il riferimento ad un Principio unico, il vero credente riesce a sottrarsi al dissesto dell’io, derivato dal moltiplicarsi di stimoli divergenti, e sa mantenere quell’unità interiore oggi ancor più necessaria, perché sa fondarsi sull’amore unificante di Dio.

Auguriamo ad ogni lettore di scoprire gioiosamente i carismi presenti nel proprio intelletto quando questo sa dilatarsi alle dimensioni dell’amore.

Tra Dio e l’Uomo

La parola religione proviene dal latino religare, unire insieme, porre in relazione. Già il fatto che si possa parlare di una relazione tra Dio e l’uomo è cosa che conforta ogni buon cercatore di verità, in quanto, paradossalmente, potrebbe anche porsi l’ipotesi di un Dio non interessato a stabilire alcun tipo di relazione con l’uomo. Per fortuna nessuna religione del mondo (per lo meno nell’ambito monoteista) ci presenta un Dio non interessato all’uomo, e questo non per esaudire un’esigenza di fede quanto piuttosto un’esigenza della ragione: un Dio non interessato all’uomo non l’avrebbe nemmeno creato. La primissima relazione che Dio instaura con l’uomo è infatti una relazione creatrice. Non vi è una sola religione monoteista che neghi questo dato. Dalla Bibbia veniamo però a scoprire un altro dato che non è immediatamente percepibile dalla ragione: la relazione rivelatrice. Dio non solo crea l’uomo e lo conserva nel tempo, ma anche gli si rivela. La Bibbia stessa è storia delle rivelazioni di Dio. La parola rivelare viene da alcuni fatta risalire all’espressione retro velum dare, che in latino significa dare ciò che sta dietro il velo, ossia far conoscere quello che non è immediatamente comprensibile dalla ragione umana, finita e limitata. Per Ebrei e Cristiani, quindi, Dio è un Dio che parla, che si rivela. Quest’irradiazione di luce è dono gratuito di Dio, e non frutto di sforzi o di intuizioni da parte dell’uomo. Il luogo cui questa viene consegnata è la storia, in modo così indissolubile che il racconto stesso degli eventi di rivelazione diventa a sua volta Rivelazione (orale o scritta che sia). La Sacra Scrittura continua quindi nel tempo la Rivelazione di Dio, rendendola accessibile anche alle epoche successive. Mentre nell’Antico Testamento il destinatario di tutto questo è un popolo (da qui nasce l’Ebraismo), nel Nuovo testamento abbiamo una destinazione universale: tutti gli uomini del mondo, tramite la Chiesa, sono i destinatari della Rivelazione. Il Cristianesimo vede in Gesù Cristo la massima Rivelazione di Dio nella Storia. E con Gesù viene ancora meglio messo a fuoco che la Rivelazione non è una semplice trasmissione di conoscenze alle quali non avremmo mai potuto accedere con la sola ragione. Ma è il manifestarsi della terza relazione che la Persona divina stabilisce con la persona umana: la relazione salvatrice. La Verità è una verità che salva. La storia è storia della salvezza. La scoperta di un Dio che salva è la testimonianza più gioiosa di tutta quanta la Bibbia. Ed il culmine dell’azione salvifica di Dio nella storia è ancora una volta Gesù Cristo. Conoscerlo equivale a salvarsi. Solo chi scambia la Fede con una somma di convinzioni religiose (e quest’approccio gravemente limitante è purtroppo molto diffuso) riduce la Bibbia e il Vangelo a una somma di conoscenze trasmesse, o Cristo a un semplice maestro di saggezza. Credere non è semplicemente ritenere vera l’esistenza di Dio, ma abbandono alla sua azione di salvezza. Se paragonassimo gli uomini ad una moltitudine di pesci finiti per loro errore o disobbedienza su una spiaggia, sfiduciati dalla vita ed impotenti, e vedessimo che un’onda li recupera restituendoli al mare, non diremmo che quest’onda porta ad essi solo una conferma dell’esistenza dell’acqua, ma diremmo che a tutti gli effetti li ha salvati. A quei pesci non rimane che abbandonarsi all’onda senza opporre resistenza. Per i cristiani, quell’onda più lunga e generosa delle altre è Cristo, che solcando il deserto dell’esistenza umana restituisce all’oceano dell’Amore del Padre quell’umanità salvata che per diritto di natura gli apparteneva. L’autocomunicazione di Dio all’uomo è dunque una comunicazione redentrice, poiché la Verità rivelata è in ultima analisi Dio stesso, e Dio non è solo luce di Verità, ma amore rigenerante, redenzione di Grazia, azione salvifica dello Spirito.

Il Decalogo

Il cuore della rivelazione di Dio nell’Antico Testamento è il Decalogo.

Il termine Decalogo vuol dire letteralmente “dieci parole”. Il libro dell’Esodo narra che attorno al 1200 A.C. “il Signore scrisse sulle tavole le parole dell’Alleanza, le dieci parole” (Es 34,28). Le due tavole “della Testimonianza” sono consegnate a Mosè nella cornice storica della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto, e rappresentano il centro dell’Alleanza antica stabilita tra Dio e l’umanità. “Per giungere ad una conoscenza completa e certa delle esigenze della legge naturale, l’umanità peccatrice aveva bisogno di questa rivelazione”, spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 2071). San Bonaventura scriveva: “Una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese necessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata”. I comandamenti sono dunque Rivelazione di Dio. Ma le verità che Dio rivela (e questo è da sottolineare) sono verità etiche. Il Decalogo è il primo codice etico donato all’umanità. Tutta quanta la Sacra Scrittura è in realtà una grande guida etica. Come se Dio desiderasse per l’uomo, più che il sapere, il saper essere. Anzi, come se il vero sapere fosse acquisibile solo a seguito di una trasformazione morale della vita. E’ importante per l’uomo sapere come comportarsi, altrimenti la vita rischia di apparirgli come una grande offerta di possibilità ma… senza le istruzioni per l’uso. Col Decalogo noi impariamo la nostra vera umanità, conosciamo il valore e la dignità della persona, impariamo a ragionare in termini di doveri e diritti, maturiamo esistenzialmente e spiritualmente. Quando queste norme fondamentali ispirano le regole sociali, le leggi civili, il diritto e la giurisprudenza (come spesso è avvenuto nella storia), le civiltà sono più progredite e gli esseri umani convivono più felicemente. Forse per questo c’è chi ha chiamato i comandamenti “i consigli per essere felici”. Il mondo è pieno d’esempi di quanta infelicità è provocata dalla inosservanza delle leggi di Dio. Leggi, si badi bene, accessibili anche alla ragione, eppure misteriosamente e ripetutamente inapplicate nonostante le continue esperienze di dolore. Dinanzi ad un’umanità che ama farsi del male, Dio risponde comunicando fedelmente il suo desiderio di bene. “Tu non ti ami, Io sì. Io amo la tua vita più di quanto l’ami tu che la possiedi”. L’uomo non sa liberarsi da solo delle sue catene interiori. Perfino la Legge, rivelata per liberarlo, egli la trasforma in altre catene, in lacci di cuoio avvolti attorno al braccio o cinture dagli infiniti nodi, come quelle con cui i farisei si legavano, e tuttora materialmente si legano: i dieci comandamenti li hanno estesi a seicentotrenta, una gran parte dei quali, su loro stessa ammissione, inosservabili. L’ossessione verso la Legge si traduce per loro in legalismo spietato. Ancora oggi se nella Bibbia leggono “non ti passerai la lama sul viso” si riducono a disquisire se il rasoio elettrico tradisce il precetto, e magari lo smontano per vedere se è costituito da lame. Simili atteggiamenti li ritroviamo talvolta anche tra i cattolici. Ma Gesù ha indicato il modo giusto di osservare la Legge. Senza attenuare i comandamenti, insegnò ad interiorizzarli tramite l’Amore. L’Amore contiene già da solo tutte le leggi, come se trasformasse il cuore dell’uomo a immagine dell’Arca dell’Alleanza, quella contenente le due tavole e che gli israeliti trasportavano nel deserto. Missione d’ogni cristiano è ritrovare l’arca perduta, ritrovare il proprio cuore allineato con la Legge. A questo dedicheremo le prossime pagine.

Il primo comandamento:

Non avrai altro Dio

I primi tre comandamenti riguardano il rapporto con Dio, cinque riguardano il rapporto con gli altri, e gli ultimi due quello con se stessi. E’ evidente che questi tre rapporti sono strettamente legati fra di loro, ma non a caso il rapporto con Dio viene comandato per primo, perché contiene inevitabilmente ogni altro comportamento. Tutti quanti i comandamenti sono necessari per vivere nella santità ed entrare nella vita eterna; quando il giovane ricco chiese a Gesù come si fa ad entrare nella vita eterna questi rispose: “Se vuoi entrare nella Vita osserva i comandamenti” (Mt 19,17). Ma il primo comandamento viene da Cristo chiamato “il massimo” perché chi lo osserva amando Dio con tutta l’anima, osserva certamente anche tutti gli altri. La Chiesa sintetizza il primo comandamento nella nota formula catechistica “Io sono il Signore Dio tuo: non avrai altro Dio all’infuori di me”, mentre la Bibbia ci aiuta a collocarlo nel contesto del popolo d’Israele appena liberato tramite Mosè ma ancora a rischio di contaminazioni idolatriche: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù; non avrai altri dei di fronte a me; non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque, sotto terra; non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai; perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi ” (Es 20 2,6; Dt 5,6-10). La sovranità e la signoria di Dio, creatore di tutto, è quindi per il credente indiscussa. E’ anche ciò che Cristo oppone a Satana durante le tentazioni nel deserto: “Vattene Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto” (Mt 4,10). Il cristiano deve costruire dentro di sé una gerarchia dei valori in cui Dio è sempre e solo al primo posto. Non si tratta solamente di un ordine morale o di un ideale; ma di un amore fermo, totale, assoluto e incondizionato. Dio deve essere istante per istante il mio punto di riferimento nelle mie scelte, nelle mie azioni, nei miei pensieri, nei miei desideri, nei miei programmi, nell’organizzazione della giornata. Gesù è molto chiaro su questo punto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Mt 22, 37). Certo solo la Grazia può operare questo, ma per fare posto alla Grazia occorre sgombrare il cuore da una moltitudine di pietre che continuamente minacciano di intasarlo. Ecco alcuni esempi di trasgressione al primo comandamento: essere egocentrici; condurre un’esistenza senza Dio o senza preghiera; essere idolatrici verso un’ideologia, verso uno stile di vita non cristiano, verso il desiderio di potere, di sesso, di denaro, verso un qualsiasi idolo umano (che può anche essere il proprio partner se lo si sostituisce a Dio); ma si può anche essere idolatrici verso se stessi, quando ci si tributa ozio, vizi, lusso, spese ingiustificate. Si tradisce Dio anche con le varie forme di superstizione, credendo nella fortuna, nella magia, ricorrendo a medium o indovini. Ed anche con l’ateismo, il satanismo, il torpore spirituale, l’agnosticismo (inclusa ogni mancata ricerca di Dio o delle sue verità), o l’autoreferenzialismo, cioè la pretesa di costruire da sé la propria visione religiosa, senza riferirsi alla Sacra Scrittura o al Magistero, o attingendo dalle altre religioni secondo i propri gusti. In senso ampio tutto può essere peccato se esclude Dio dal primo posto nei pensieri, nella vita, nel cuore.

Non nominare il Nome di Dio invano

Qual è il nome di Dio? Dio si è rivelato all’umanità progressivamente e sotto diversi nomi, ma “la rivelazione del Nome divino fatta a Mosè nella teofania del roveto ardente, alle soglie dell’Esodo e dell’Alleanza del Sinai, si è mostrata come la rivelazione fondamentale per l’Antica e la Nuova Alleanza” (CCC 204). Dio ha un nome, non è una forza anonima. Il nome esprime l’essenza, l’identità della persona, il senso della sua vita. Svelare il proprio nome è farsi conoscere agli altri, è consegnare se stesso rendendosi in qualche modo accessibile, disponibile ad essere conosciuto più intimamente, e di essere chiamato personalmente. Rivelando il suo nome misterioso di YHWH, “Io sono colui che E'”, oppure “Io sono colui che Sono”, o anche “Io sono chi Io sono”, Dio fa capire con quale nome lo si deve chiamare: “Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi…Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione” (Es 3,13-15, CCC 203,206). Questo Nome divino è misterioso come Dio è Mistero, è al tempo stesso un nome ma anche rifiuto di un nome, perché Dio è al di sopra di tutto e non è racchiudibile in una parola. E’ appunto questa la Rivelazione: Dio non è una delle tante divinità che la mente umana può partorire, né un elemento della natura, né panteisticamente il cosmo stesso; Dio è l’Assoluto, l’Essere per eccellenza, in quanto increato e sussistente di per sé, senza origine e senza fine, da cui deriva l’essere di tutte le cose. Se gli uomini possono dire anch’essi io sono, è perché hanno ricevuto questo dal loro creatore, mentre Dio è da se stesso tutto ciò che Egli è. YHWH è la pienezza dell’Essere, mentre noi creature pur dicendo io sono non abbiamo nemmeno consapevolezza di ciò che siamo. Però l’acquistiamo man mano che collochiamo il nostro buio io sono nella luce della totalità dell’Io Sono divino, pronunciando il nostro essere come lo pronuncia Lui. Il popolo d’Israele aveva tale timore e rispetto del Nome di Dio che quando leggeva le scritture sostituiva il tetragramma sacro YHWH con il titolo divino “Signore” (Adonai, in greco Kyrios). Ed è con questo titolo che i cristiani proclameranno la divinità di Gesù, indicandolo come il Kyrios, il Signore. Dopo la teofania del roveto ardente e la rivelazione del nome di Dio, Mosè riceve sul Sinai anche la rivelazione dei comandamenti: uno di questi, il secondo, riguardava quello stesso nome: “Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncerà il suo nome invano” (Es 20,7). Non è un divieto a pronunciare il nome di Dio, ma ad abusarne. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci indica alcuni esempi d’abuso: la bestemmia, l’imprecazione, il falso giuramento chiamando Dio a testimone (Gesù consigliava anzi di non giurare affatto), la promessa fatta in nome di Dio e poi non mantenuta, perché così facendo s’impegna ignominiosamente la Verità di Dio (CCC 2146-2155). Anche abusare del nome del Signore per ordinare una guerra o un’esecuzione significa coinvolgere irresponsabilmente la sua Autorità con la pretesa, fosse anche in buona fede, di conoscere la volontà di Dio. Ma il secondo comandamento, come del resto avviene per tutti gli altri, non va visto solo in funzione del divieto che esprime, ma come rivelazione positiva mirante a educare il cuore dell’uomo alla santità, acquisibile solo se vi è rispetto del sacro, piena avvertenza della diversità di Dio rispetto alla nostra realtà creaturale, maturata consapevolezza della sua autorità e signoria che solo per grazia viene partecipata a chi con umiltà sa pronunciare il suo Nome. Il credente, pieno d’amorosa adorazione, non lo inserirà fra le sue parole se non per benedirlo, lodarlo e glorificarlo.

Ricordati di santificare le feste

Il terzo comandamento è riportato nel libro dell’Esodo come segue: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro” (Es 20,8-11, cfr Dt 5,12-15). Questo comandamento chiede in primo luogo di fare memoria della creazione, e in secondo luogo di fare memoria della liberazione d’Israele dalla schiavitù d’Egitto. Inoltre il Signore chiede al suo popolo che il settimo giorno diventi segno dell’alleanza perenne tra Dio e l’umanità. Da allora, per secoli e millenni, il tempo dell’uomo è stato scandito in sette giorni. Tutt’oggi in quasi tutto il mondo esiste la settimana, anche se molti ignorano che essa proviene dalle prescrizioni del Sinai. Nel mondo cristiano il settimo giorno viene liturgicamente celebrato di domenica perché Gesù è risorto “il primo giorno della settimana”, e cioè il giorno dopo il sabato (Mt 28,1; Mc 16,2; Lc 24,1; Gv 20,1). Il Catechismo ricorda che “in quanto primo giorno il giorno della Risurrezione di Cristo richiama la prima creazione” ma “in quanto ottavo giorno, che segue il sabato, esso significa la nuova creazione inaugurata con la Risurrezione di Cristo” (CCC 2174). Per questo la domenica è diventata per i cristiani il più importante fra tutti i giorni, la più importante fra tutte le feste, il giorno del Signore (dies dominica). Alcuni movimenti cristiani (per esempio gli Avventisti del Settimo Giorno) si dichiarano contrari alla domenica e favorevoli al ripristino del sabato ebraico, definendo addirittura la domenica “il marchio della bestia”. Ma la tradizione di celebrare la domenica risale fino ai tempi apostolici: già nel libro degli Atti leggiamo: “Il primo giorno della settimana c’eravamo riuniti a spezzare il pane…c’era un buon numero di lampade nella stanza superiore, dove eravamo riuniti…(e Paolo) spezzò il pane e ne mangiò” (At 20,7-11). Anche la Didachè, di poco successiva, chiama il primo giorno della settimana “la domenica del Signore”. Del resto già nel primo secolo la Chiesa primitiva, a seguito d’alcuni attriti con l’autorità giudaica, manifestò subito la propria autonomia da essa, tanto che nel concilio di Gerusalemme del 49 fu dichiarata ufficialmente l’indipendenza del culto cristiano da quello ebraico (cfr anche Il Culto Cristiano in Occidente, di Enrico Cattaneo, p.32ss). Anche San Giustino, agli inizi del secondo secolo, scriveva: “Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti” (Apologie 1,67). La domenica è dunque a pieno titolo giorno della Risurrezione, della nuova creazione. Ma è anche giorno della comunità perché il Signore vuole che la gioia di questa festa sia condivisa con tutti i fratelli (Suggeriamo la lettura della bella Lettera Apostolica Dies Domini). L’agape fraterna è sigillata dalla liturgia sacrificale per cui la domenica diventa anche giorno dell’Eucarestia, e prefigurazione del banchetto celeste. Il valore escatologico del settimo giorno illumina però tutta quanta la settimana terrena: attraverso la domenica anche tutti gli altri giorni possono diventare tempo sacro da vivere con Dio. Già la semplice astensione dal lavoro ci ricorda che non dobbiamo restare sottomessi alla schiavitù del lavoro e al culto del denaro, ma anzi dobbiamo evitare il pericolo che tutta la nostra esistenza perda la sua vera direzione. La mancata osservanza del terzo comandamento porta gradualmente alla perdita di significato dell’intera esistenza. I cristiani guardano con sospetto tutti quei tentativi per rendere lavorativi anche i giorni domenicali, perché in essi si cela l’insidia di una visione del tempo non più scandita dal sacro, non più storia di salvezza, ma come piatto e ripetitivo scorrere delle ore, prive di dignità e di senso.

Onora il padre e la madre

I primi tre comandamenti riguardano l’amore verso Dio, mentre dal quarto comandamento in poi le prescrizioni divine riguardano l’amore verso il prossimo. Il nostro Catechismo dice: “Il quarto comandamento apre la seconda tavola della Legge. Indica l’ordine della carità” (CCC 2197). E le prime persone cui è dedicata l’attenzione sono i propri genitori: “Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio” (Es 20,12). Dio ha voluto che, dopo di lui, onoriamo i nostri genitori ai quali dobbiamo il dono della vita e che ci hanno trasmesso la conoscenza di Dio. Anzi, promette un “prolungamento di vita” per chi li onora. Oggi i nuovi modelli educativi hanno portato i figli a vedere i genitori come dei fratelli maggiori, in una forma di relazione in cui il valore dell’autorità è andato progressivamente calando. A loro volta il padre e la madre tendono a voler apparire come “amici” dei loro figli. Tutta questa è stata forse una reazione agli schemi autoritaristici non fondati sull’amore, ma è indubbio che tale mal interpretata confidenza indebolisce nei figli il riconoscimento di un’autorità che è immagine dell’autorità di Dio. I genitori la ricevono da Dio e devono esercitarla nell’amore, ma ad essa non si può abdicare se non si vuole privare i figli di preziose certezze, se non si vuole impedire loro di consolidare il proprio io in formazione su un modello di genitore saldo che rimanda i propri valori all’autorità di Dio. Un grave campanello d’allarme di cui la pedagogia si sta tardivamente accorgendo è la progressiva mancanza di rispetto che le giovani generazioni hanno spesso verso i genitori, gli educatori, gli insegnanti. Il quarto comandamento può essere letto anche come rispetto di quelle autorità che i genitori ci pongono amorevolmente accanto per la nostra crescita, e che sono, oltre ai parenti, i nostri maestri ed insegnanti, i nostri educatori e sacerdoti. E infine il papa, che è anch’egli un “papà” da onorare, così come la Chiesa che è nostra madre. L’onore è una caratteristica inseparabile dell’amore. Se a volte svalutiamo questa virtù è perché viene spesso scorporata dall’amore. Quando noi diciamo: “Ho il mio onore da difendere” possiamo rischiare di apparire ridicoli se non abbiamo nel cuore tutti gli altri valori. Quelle mamme e quei papà che danno cattivo esempio fanno fatica ad esigere l’onore. Ma Dio ci ha dato il dono della vita attraverso i nostri genitori, e chiede che attraverso i nostri genitori lo onoriamo. La Provvidenza del Padre agisce in primo luogo attraverso nostro padre e nostra madre; chi ci ha cresciuto con sacrifici merita sempre tutto l’onore e l’amore possibile, sia durante gli anni della convivenza, sia durante gli anni della sua vecchiaia, quando l’onore si traduce in concreto servizio e amorevole assistenza; e sia dopo la morte, quando i genitori vanno ricordati nella preghiera assieme ai nonni e agli antenati.

Il quarto comandamento “annunzia i comandamenti successivi, concernenti un rispetto particolare della vita, del matrimonio, dei beni terreni, della parola. Costituisce uno dei fondamenti della dottrina sociale della Chiesa” (CCC 2198).

Questo comandamento, infatti, implica a sua volta i doveri di tutti quelli che esercitano l’autorità, che sono, oltre ai genitori, i docenti, i datori di lavoro, i magistrati, i governanti, e tutti coloro che hanno responsabilità su una comunità di persone (cfr CCC 2199). Il rispetto di questo comandamento procura frutti temporali di pace e di prosperità, mentre la sua trasgressione arreca gravi danni alla comunità e alle persone.

Il quinto comandamento:

Non uccidere

Vi sono molte persone che si sentono la coscienza a posto affermando: “Io non sono un gran cattolico, ma in fondo Dio sa che non ho ammazzato nessuno”. Premesso che per la propria salvezza eterna non è sufficiente l’essersi semplicemente astenuti dall’omicidio, siamo proprio sicuri che si uccide solo con un colpo di pistola o di pugnale? Vorrei elencare qui alcuni comportamenti che provocano o possono provocare il doloroso effetto di togliere il dono della vita a una persona, direttamente o indirettamente: l’omissione di soccorso, evitare cioè di prestare o richiedere aiuto per una persona in pericolo di vita; la guida pericolosa: l’incidente stradale mortale spesso non è affatto un “incidente”, ma è stato provocato da un comportamento incosciente; l’uso e la commercializzazione di sostanze dannose per la salute, di cui si conosce la pericolosità nell’impiego domestico o alimentare (per esempio i cancerogeni); la pratica del fumo, specie in ambienti affollati o in presenza di bambini, malati, anziani (oltre, naturalmente, al normale danno per se stessi); lo spaccio di droghe, sia quelle che possono avere pericolosi effetti immediati, sia quelle che uccidono lentamente; la prescrizione irresponsabile di farmaci, senza considerazione per il possibile abuso o senza accertamento adeguato dello stato di salute del paziente; come anche l’esercizio sconsiderato della terapia medica o chirurgica, compresa la sperimentazione sui pazienti di tecniche pericolose senza effettiva necessità, e compreso l’espianto di organi da persone ancora vive; ogni informazione distorta riguardo notizie la cui completa e corretta conoscenza consentirebbe di salvare vite umane (non solo in campo medico e farmaceutico, bensì anche in ambito giornalistico o anche semplicemente a voce, nascondendo, omettendo, deformando in mala fede); la costruzione e la vendita di abitazioni costruite in zone pericolose, come quelle a rischio di frana o alluvione, od anche la realizzazione di edifici insicuri (insufficienza di cemento armato, mancata prevenzione anti-sismica…); l’interruzione di gravidanza od ogni consenso ad essa, attivo o passivo che sia, così come ogni incoraggiamento verso la stessa tramite la professione medica, giornalistica, politica, od altra; la sperimentazione o commercializzazione di embrioni umani, così come ogni tecnica che ne toglie la vita, compresi i metodi di fecondazione artificiale; l’eutanasia, attiva o passiva che sia, in tutte le sue varie forme (salvo la cessazione di accanimento terapeutico); il suicidio o l’istigazione allo stesso, anche tramite la stampa o i mezzi mediatici; l’uso pericoloso di armi, anche da caccia e sportive se utilizzate in modo inappropriato; la guerra, così come ogni sostegno o incitamento ad essa, comprese le forme di protesta sociale armata, di terrorismo e di guerriglia urbana; la falsa testimonianza o il silenzio, soprattutto in sede processuale, quando a causa di essi si provoca o non si evita la morte di una persona; la pena di morte: pur essendo stata tollerata quando si presentava come unica via praticabile di difesa dall’aggressore, oggi gli Stati hanno quasi sempre mezzi incruenti di difesa e di sicurezza, per cui “i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Cfr Evangelium Vitae n.56 e Catechismo della Chiesa Cattolica n.2267).

Abbiamo qui indicato solo alcuni esempi dei modi in cui, anche senza rendersene conto, s’infrange il quinto comandamento. Oltre che di privazione assoluta d’amore e di grazia, si tratta di una trasgressione mortalmente grave della Legge di Dio. Ogni vita umana, dal concepimento alla morte, è sacra, in quanto Dio “ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio di ogni carne umana” (Gb 12,10).

Il sesto comandamento

Il sesto comandamento ci viene presentato in una duplice formula: “Non commettere adulterio” e “Non commettere atti impuri”. La prima è la versione biblica (Es 20,14; Dt 5,18) e la seconda è la versione catechistica. Perché questo cambiamento? Può la Chiesa modificare il testo di un comandamento divino? Potremmo rispondere: sì, se Gesù stesso nella sostanza lo ha modificato. Nel vangelo di Matteo si legge: “Avete udito che fu detto: non commettere adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,27-28).

In realtà Gesù non modifica per nulla la Legge del Sinai, ma ne completa la comprensione. Da grande conoscitore del genere umano ci ricorda che l’adulterio è solo l’ultima fase di una disobbedienza che è cominciata nel cuore, ed è stata poi coltivata nel tempo con una serie di atti voluti. L’infedeltà incomincia dai pensieri; il tradimento è di fatto preceduto da azioni preparatorie che per loro natura sono già anch’esse adulterine. L’acquisizione del dominio di sé è pedagogia della libertà umana. Ma non è solo questione di imparare a gestire la propria sessualità: è che “la sessualità esercita un’influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell’unità del suo corpo e della sua anima” (CCC 2332). Esercita perfino un influsso sulle relazioni sociali e sullo sviluppo della società. Il Catechismo della Chiesa Cattolica non si limita a fare un elenco dei possibili atti impuri (l’adulterio, il divorzio, la poligamia, l’incesto, la pedofilia, la pratica omosessuale, la lussuria, la fornicazione, la pornografia, la masturbazione, la prostituzione, lo stupro…) ma rimarca che la sessualità va positivamente integrata nella persona, al fine di ottenere l’unità interiore dell’uomo, nel suo essere corporeo e spirituale (CCC 2337). La sessualità diventa pienamente autentica se fa tutt’uno con le relazioni “da persona a persona, nel dono reciproco, totale e illimitato nel tempo, dell’uomo e della donna”. Comprende fino a fondo la dimensione della sessualità solo chi comprende fino a fondo la dimensione e la missione dell’uomo. Se l’essere umano ha escluso dalla propria vita ogni riferimento a Dio, ogni discorso valoriale sulla sessualità diventa automaticamente inutile ed inaccettabile. L’uomo non liberato è troppo avvinghiato a una serie di dinamiche psicologiche che affondano le radici nell’inconscio, negli impulsi fisiologici, nelle suggestioni dei mass media, nei condizionamenti sociali, nelle deformazioni derivanti da esperienze sbagliate, per cui diventa davvero tempo perso cercare di recuperare la sessualità senza aver recuperato l’uomo. La sessualità è redenta solo quando l’uomo è redento. Le parole non possono combattere contro meccanismi chimici e irrazionali se non è operante, in chi ascolta, l’azione luminosa e trasformatrice della Grazia. Solo la preghiera può capovolgere la psicologia del peccato. Per certi versi è addirittura impossibile un controllo totale della propria natura senza un sostegno di tipo soprannaturale. Senza l’azione redentrice dello Spirito l’uomo non liberato è talmente vincolato e determinato che dinanzi a ogni indicazione di vita morale oppone un muro di rifiuti e di obiezioni, sentendosi irremovibilmente dalla parte della ragione. Solo quando si coglie il senso della propria vita in Dio e non si brama che di raggiungerlo vivendo nell’amore diventa chiaro ogni impegno morale e si è disposti a compiere quegli sforzi che pure non mancano.

Il settimo comandamento

Proviamo un attimo ad immaginare un mondo in cui viene rispettato anche solo questo comandamento, quello di non rubare: la mattina usciremmo da casa accompagnando semplicemente la porta con la mano, perché non esisterebbero serrature; non impazziremmo per cercare di capire in quale tasca abbiamo lasciato le chiavi della macchina perché non esisterebbero ovviamente nemmeno le chiavi, e saliremmo in vettura facendo comodamente partire il motore con la pressione di un pulsante. Il nostro veicolo funzionerebbe naturalmente in modo perfetto perché nessun meccanico disonesto ci avrebbe preso in giro durante l’ultima riparazione, ed in ogni caso coi soldi risparmiati in sistemi d’allarme e in assicurazioni per il furto (oltre che nel furto delle assicurazioni) non avremmo nessun problema a comprarci una macchina nuova. Lungo il percorso faremmo benzina ben certi che la quantità di carburante corrisponda esattamente alla quantità indicata dalla pompa, ed anzi il carburante costerebbe assai poco senza la rapina delle compagnie petrolifere associate in cartello (e quella dello Stato). Ai semafori non saremmo fermati da nessun lavavetri perché nella sua terra nessuno sarebbe sfruttato ingiustamente, nessuno applicherebbe ai prestiti tassi d’interesse usurai, nessuno adotterebbe forme di neocolonialismo. Arriveremmo a lavoro, felici di trovare tutta la contabilità semplificata, in quanto ogni controllo fiscale non avrebbe senso in un mondo di onesti. La nostra stessa busta paga sarebbe più gonfia, sia perché ci verrebbe corrisposto il giusto salario, e sia perché le tasse sarebbero molto più basse essendo pagate da tutti; ma sarebbero più basse anche per tutto quello che il sistema risparmierebbe in carceri e poliziotti, in furgoni blindati e depositi corazzati, in impianti antifurto e costosi processi. In sostanza saremmo tutti più ricchi, per cui non vi sarebbe neanche la necessità del furto. Già per un solo comandamento non rispettato ci siamo guastati la vita. Del resto le tavole della Legge erano state date proprio per una nostra maggiore felicità sulla terra, e non certo perché Dio ci guadagnasse qualcosa.

Inoltre dobbiamo capire che il vero danno del furto non è quello materiale, ma quello spirituale. Il vero danno per chi ruba è nell’uscire dalla visione d’amore con cui andrebbe guardata la realtà. Nel rubare compio innanzi tutto un furto a me stesso, perché mi privo della visione di Dio già in questa vita (col rischio di perderla anche nella prossima). Per un piccolo beneficio materiale perdo la serenità e la gioia, e non riesco più a gustarmi la vita essendomi assai più difficile se non impossibile conservare quell’ottica d’amore per gli altri che è alla base d’ogni felicità terrena, prima ancora che celeste. In secondo luogo derubo anche l’altro di una parte di questa visione, danneggiando, oltre che il suo bene materiale, anche la sua fiducia nel prossimo, il suo ottimismo, la sua gioia di vivere in un mondo di fratelli; lo costringo verso la diffidenza, la circospezione, l’insicurezza. Il furto più grande che gli faccio è che lo derubo di me: non avverte più la mia presenza come una continuità. Gli impedisco parte della visione di Dio perché non vede più Dio in me. Frantumo il regno di Dio sotto i suoi occhi. Questo pericolo è tanto grave che il Vangelo invita il derubato della tunica ad inseguire il ladro per donargli anche il mantello; affinché, pur restando una perdita materiale, si eviti almeno di perdere un fratello. La fratellanza può ancora salvare. Veramente in pochi deruberebbero un loro fratello: in realtà il furto inizia quando ho smesso di vedere l’altro come un fratello. Siamo tutti ladri nel medesimo istante in cui smettiamo di amare. Ma in fondo al cuore dell’uomo, anche di quello più incallito nel furto, rimane il desiderio ideale di una società d’amore. Utopia che viene respinta solo fino al giorno in cui non avviene l’incontro con Chi, sacrificandosi sulla croce, riuscì a restituire anche al ladro il suo cielo dicendogli: “Oggi stesso sarai in Paradiso con Me”.

L’ottavo comandamento

Dio è Verità. Ogni distacco dalla Verità è distacco da Dio. L’ottavo comandamento ammonisce a non escludere Dio nel rapporto con gli altri: “Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20,16). Esiste una comunione tra gli spiriti che si esprime in atti d’amore e parole. Questa comunione è tanto più santa quanto più questi atti e queste parole sono gli atti e le parole di Dio. Il regno di Dio non è altro che questo. Il danno della menzogna non sta tanto nel fatto che viene detta una cosa al posto di un’altra, ma nel fatto che tramite essa escludo Dio e il suo regno dal rapporto con le persone. E questo comporta una privazione di luce, momentanea o permanente, nella comunicazione tra me e gli altri, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Non si può essere in comunione con quel Cristo che disse Io sono la Verità e al tempo stesso operare la menzogna. Serve a poco cercare le circostanze attenuanti che possono giustificare una bugia; Gesù, perfino davanti a Pilato che lo minaccia di morte, non si sottrae dal proclamare di essere “venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Nella menzogna il Signore denuncia un’opera diabolica: “Voi…avete per padre il diavolo… non vi è verità in lui. Quando dice il falso parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Se Satana è dunque padre della menzogna, colui che la pratica esce dalla paternità di Dio per passare sotto quella del diavolo: ha scelto, a volte inconsapevolmente, un altro padre. Ecco perché la Chiesa indica come unico rimedio il ritorno al Padre, la confessione. Certo non tutte le menzogne hanno identico peso morale. Il Catechismo perfeziona il nostro discernimento affermando che “la gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime” (CCC 2484). S. Agostino, nel suo trattato sulla menzogna, precisa che “la menzogna consiste nel dire il falso con l’intenzione d’ingannare” (De Mendacio, 4,5: PL 40,491). Ma esistono diversi modi di tradire la verità: l’ironia malevola, la millanteria, la lusinga, l’insinuazione, e finanche la verità stessa ma detta con lo scopo di fare del male. La menzogna, che in sé può essere anche un peccato veniale, diventa un peccato mortale “quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità” (CCC 2484). Oltre alla necessità del pentimento emerge dunque il dovere di riparazione. Se poi la menzogna è esercitata pubblicamente riveste una gravità particolare. Attuata dinanzi a un tribunale diventa falsa testimonianza e spergiuro.

L’ottavo comandamento talvolta si aggrava combinandosi con il settimo: vale a dire quando la mia menzogna deruba il prossimo di qualcosa, per esempio della libertà, o d’ingiusti risarcimenti, o della sua reputazione. Si parla di giudizio temerario quando si sostiene come vera, ma senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo. La maldicenza invece consiste nel rivelare senza motivo i difetti e le mancanze altrui a persone che le ignorano. Peggiore ancora è la calunnia, che distrugge, a volte dolorosissimamente, l’immagine di una persona. E’ triste notare come tutte queste diaboliche arti siano sempre più adoperate da certuni come strumento di concorrenza sleale verso un avversario, per esempio nella propaganda politica. In questo senso emerge in modo particolare l’enorme responsabilità dei mass media, che spesso funzionano da micidiali moltiplicatori del falso.

I comandamenti del desiderio

Il nono e il decimo comandamento si presentano nel libro dell’Esodo in forma quasi unificata: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Es 20,17). La tradizione catechistica cattolica distingue però la concupiscenza carnale (“Non desiderare la donna d’altri”, nono comandamento) dalla concupiscenza dei beni (“Non desiderare la roba d’altri”, decimo comandamento). Del resto già l’apostolo S. Giovanni distingueva nella sua prima lettera tra la concupiscenza della carne e la concupiscenza degli occhi (1Giov 2,16). Ma cosa s’intende esattamente per concupiscenza? Questo termine indica ogni forma veemente di desiderio umano disordinato, non conforme alla legge di Dio ed ai dettami della ragione umana, coltivato e perseguito volontariamente. Provare semplicemente un desiderio di per sé non è peccato, così come non sono peccato le semplici tentazioni. Il peccato subentra quando tentazioni e desideri sbagliati sono assecondati e perseguiti. Si può obiettare che certe volte la fragilità umana sottopone la psiche a desideri che sembrano ineliminabili, talvolta perfino ossessivi. Queste situazioni (al di là di possibili patologie o vessazioni) sono però provocate da quello che potremmo chiamare …volo a bassa quota. Molte tentazioni e molti desideri, infatti, non sarebbero percepiti a quote più alte, a livelli di vita più elevati spiritualmente; la preghiera, la vigilanza, l’esercizio interiore, il sostegno della grazia, hanno davvero il potere di sottrarci da quel sottobosco di desideri abitudinari innalzandoci in cieli molto più vivibili per noi. Invece di lottare faticosamente contro continue tentazioni è più saggio sottrarsi ad esse con un colpo d’ala. Anzi, il mancato decollo spirituale quando questo è possibile (e vi sono volte in cui davvero non lo è?) comporta già di per sé peccato, perché rendiamo la caduta prima o poi inevitabile. Ecco perché Dio comanda di non desiderare. Desiderare ciò che è negativo è inclinazione congenita del peccato originale, ma questo non deve diventare alibi per tenerci lontani dalla originaria integrità. Il nono e il decimo comandamento, additando più il campo del desiderio che quello dell’azione, sono un’indicazione anticipatrice del Cristo, che con la sua grazia santificante opera quella trasformazione dei cuori che abilita pienamente gli uomini a desiderare come Dio. Il nostro catechismo affronta con chiarezza il tema della purificazione del cuore e quello della lotta per la purezza (CCC 2517-2527). Esso ci indica quattro preziosi strumenti per irrobustire quella che San Paolo definiva la nostra armatura: la virtù della castità (perché ci permette di amare con cuore retto e indiviso), la purezza d’intenzione (che consiste nel tenere sempre presente il vero fine dell’uomo, e nel desiderare solo i desideri di Dio), la purezza dello sguardo (esteriore ed interiore, mediante il rifiuto d’ogni compiacenza nei pensieri impuri, e la disciplina dei sentimenti e dell’immaginazione), la preghiera (personale o comunitaria, con la Sacra Scrittura o il Santo Rosario, nutrita della forza dei sacramenti). S. Agostino nelle sue Confessioni diceva: “Pensavo che la continenza si ottenesse con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro. Ero stolto a tal punto da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente se Tu non lo concedi. E Tu l’avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore, e se avessi lanciato in te la mia pena con fede salda” (Confessiones 6,11,20).

Gesù, il Cristo

Il cuore della rivelazione di Dio nel Nuovo Testamento è Gesù.

Gesù in ebraico significa “Il Dio che salva”. Questo nome non lo scelse Maria, ma se l’è scelto Dio stesso, e al momento dell’Annunciazione fu rivelato a quella Madre che col suo sì lo sigillò alla storia: “Lo chiamerai Gesù” (Lc 1,31). E come tutti i nomi ebrei anche questo esprimeva l’identità e la missione di chi lo portava. Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Il nome di Gesù significa che il Nome stesso di Dio è presente nella persona del Figlio suo, fatto uomo per l’universale e definitiva Redenzione dei peccati” (n.432). Dio solo, infatti, può rimettere i peccati, come affermano gli stessi oppositori di Cristo in occasione della guarigione del paralitico (Mc 2,7). Dio quindi ricapitola in Gesù tutta la storia della salvezza e anzi la porta a compimento. “E’ il nome divino che solo reca la salvezza” (CCC n.432) e “non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Il lungo esodo dell’uomo, iniziato con la Rivelazione del Nome di Dio a Mosè (“Io Sono”: ES.3,14) culmina quindi con la Rivelazione completa di quel Nome: “Io sono il Dio che salva”. “Dio non si è limitato a liberare Israele dalla condizione servile, facendolo uscire dall’Egitto; lo salva anche dal suo peccato” (CCC n.431). Quando Gesù si appropria del Nome di Dio pronunciandolo con le sue labbra, i suoi nemici cadono a terra (“Quando ebbe detto loro Io Sono indietreggiarono e caddero a terra”; Gv 18,6).

Gesù è dunque il Cristo. Il termine Cristo viene dalla traduzione greca del termine ebraico Messia, che a sua volta significa Unto, e cioè scelto e consacrato per una missione. In Israele, infatti, erano unti nel Nome di Dio coloro che erano a Lui consacrati per una missione che Egli aveva ad essi affidato: era il caso dei re, dei sacerdoti, e in qualche caso dei profeti. Gesù ha realizzato in pienezza la speranza messianica d’Israele nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re, peraltro già simboleggiata alla sua nascita dai tre doni dei Magi. Ed anche l’angelo del Signore confermerà ai pastori: “Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore che è il Cristo Signore” (Lc 2,11). Anche il termine Cristo non viene dunque assegnato a Gesù dagli uomini ma da Dio stesso; sebbene Pietro, sotto l’azione ispiratrice del Padre, farà in modo che la chiesa lo assuma nel suo Credo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). “Figlio di Dio” è un’espressione già implicita nell’annuncio dell’arcangelo Gabriele, ed “indica la relazione unica ed eterna di Gesù Cristo con Dio suo Padre: egli è il Figlio Unigenito del Padre e Dio egli stesso. Per essere cristiani si deve credere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio” (CCC n.454). Ecco la Buona Novella, essenza stessa del Vangelo (lieto annuncio, eu angheliòn: evangelo): “Dio ha visitato il suo popolo, ha adempiuto le promesse fatte ad Abramo ed alla sua discendenza; ed è andato oltre ogni attesa : ha mandato il suo Figlio Prediletto (CCC n.422). Il Verbo, come dice Giovanni, si è fatto carne. La natura divina si è congiunta con la natura umana. Il Figlio di Dio, l’Inviato del Padre, si è fatto uomo. L’eternità irrompe così nella storia, assorbendola in sé e instaurando in essa il Regno di Dio, ove Gesù Cristo è il Signore.

Il comandamento nuovo

La vera natura della persona sta nell’essere un atto d’amore di Dio. Le relazioni fra le persone non possono quindi che esprimere questo amore. Dio ama attraverso di noi, e questo ci rende come canali di luce e di amore, ci trasforma nell’intimo, ci santifica, ci rende compartecipi della redenzione. Il “comandamento nuovo” di Gesù rivela agli uomini questa condizione soprannaturale: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Già il libro del Levitico aveva comandato di amare il prossimo “come te stesso” (Lv 19,18), ma qui viene chiesto di amare “come Gesù ama”. Amare gli altri come io sono capace di amare me stesso rientra fra le mie capacità naturali, anche se fra quelle più elevate. Ma amare come solo Dio è capace di amare, è facoltà soprannaturale. E se Gesù ce lo comanda, vuol dire che questo è, nella nuova alleanza, diventato possibile. Il comandamento nasconde in realtà un dono, un dono soprannaturale della Grazia: amare con l’amore di Dio, e quindi in modo divino, amare gli altri non come amerei me stesso, ma più di me stesso, fino a dare anche la mia vita per i fratelli, come Gesù ha dato la sua per noi. E’ un invito ad amare senza limiti, a lanciarsi in un’avventura senza confini in cui l’io si dilata verso l’infinito. I santi e i mistici della storia del cristianesimo sono stati colti dalle vertigini dinanzi a quest’abisso d’amore sperimentato dentro di loro. Spesso si lamentavano di non riuscire a reggerlo. A volte affermavano che se non li avesse sostenuti la Grazia il cuore sarebbe scoppiato. I dieci comandamenti, alla luce di tutto questo, diventano un legaccio inconsistente: l’idea di uccidere o di rubare non è neanche più concepita. In questo stato di santità introdotto dall’Amore ogni legge è del tutto spontanea. Il decalogo è completamente interiorizzato. La distanza tra legge esterna centrata sulle tavole e legge interna centrata sulla coscienza è annullata. Con la nuova alleanza è Dio che vive nell’uomo, ed unica legge è la legge dell’amore. Sant’Agostino s’arrischiò fino a dire: “Ama Dio e fa’ ciò che vuoi”. E’ la libertà di chi ha ricevuto in dono di vivere nella Grazia, di vedere il proprio cuore cambiato in quello di Cristo.

Il nostro Catechismo afferma: “Dio, che ha creato l’uomo per amore, lo ha anche chiamato all’amore, vocazione fondamentale e innata di ogni essere umano” (CCC 1604). L’amore fra gli uomini realizza il Regno di Dio sulla Terra, crea somiglianza fra l’umanità e il volto di Dio, anticipa le bellezze della condizione celeste. La vera natura della Chiesa è nell’essere una comunità d’amore che a sua volta è al servizio degli altri. L’amore non può essere disgiunto dalle opere, perché è irrefrenabile impulso di missionarietà. Il cuore è il motore delle braccia. La carità con cui si esprime la Chiesa è continuazione dei gesti e dell’amore di Cristo nel mondo. E non vi sono limiti all’amore: tutto dipende dalla misura in cui si è disposti a donare ad esso il proprio cuore.

La Croce di Gesù

Perché Gesù ha scelto la croce? Era possibile evitarla? Che significato ha per noi la croce?

La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso, né di un destino a cui Cristo non avrebbe potuto sottrarsi. Essa appartiene al misterioso disegno di Dio che Gesù abbraccia con piena consapevolezza e per amore dell’uomo. San Pietro, come primo annuncio dopo la Pentecoste, rivela proprio questo: “Egli fu consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (At 2,23).

Dio ha permesso il libero esercizio delle volontà di male, convergenti attorno al calvario, per adempiere il suo disegno di salvezza stabilito dall’eternità, e annunziato dalle Scritture.

San Paolo scrive ai Corinzi: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” (1Cor 15,3). La Croce ha dunque significato d’espiazione, riparazione, redenzione. La Chiesa ha sempre insegnato che Cristo morì per tutti, senza eccezioni: “Non vi è, non vi è stato, e non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto” (DS, 624).

Già nella prima teofania pubblica, quando Gesù si fa battezzare nel Giordano, Cristo si mostra come “l’Agnello di Dio, …colui che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29). Il sacrificio pasquale degli agnelli era praticato dagli ebrei come offerta propiziatoria a Dio, e col sangue veniva asperso il popolo; ma nessun agnello e nemmeno nessun uomo avrebbe potuto pagare il prezzo di tutti i peccati passati, presenti e futuri commessi da tutta l’umanità. Era un debito talmente alto che solo il Figlio di Dio avrebbe potuto saldarlo in pienezza. Tramite la sua natura umana poté soffrire, tramite quella divina poté pagare infinitamente, riscattando il prezzo della nostra salvezza, e liberandoci dalle catene del male e del peccato, per aprirci le porte della vita eterna.

Questa nuova Pasqua viene però chiamata mistero perché la nostra ragione e la nostra immaginazione non potrebbero mai sondare l’abisso di questo dolore né i vertici di questo amore. E’ grazie alla Croce che siamo salvi, che possiamo vivere la nostra vita con un senso, e dopo di essa partecipare della beatitudine eterna con tutte le persone che amiamo e che abbracceranno questa salvezza.

Gesù ha accolto nel suo cuore umano l’immenso amore del Padre, e l’ha tradotto in sacrificio di salvezza, “perché nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici” (Gv 15,13). Nonostante il peso della prova, pienamente avvertito già nel Getsemani, si è trattata di una scelta spontanea e liberamente accettata: “Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso” (Gv 10,18). L’Eucaristia, istituita nell’ultima sua cena, diventerà perenne memoriale del suo Corpo e del suo Sangue offerti per la salvezza. A tal fine Cristo conferì il suo sacerdozio agli apostoli, che vennero consacrati per continuare e rinnovare il suo sacrificio.

Anche se la morte di Gesù è un “sacrificio unico e definitivo” (CCC 613), Gesù ci rende compartecipi del suo amore, e dunque anche del suo disegno di salvezza. Unisce tutti coloro che all’interno della Chiesa vivono in stato di grazia, e tramite questo suo Corpo Mistico prolunga nel tempo e nello spazio la sua opera di redenzione. Accoglie l’offerta che davanti all’altare i cristiani fanno della propria vita e della propria sofferenza, perpetuando la sua passione attraverso di loro.

Tutti i cristiani possono gioiosamente unirsi a quest’azione di salvezza, attraverso la quale Cristo li rende “pescatori di uomini”.

La Risurrezione di Gesù

Se vogliamo accostarci ad un mistero così alto come quello della Risurrezione, occorre evitare la tentazione di considerarla come un fatto solo spirituale, privo di fisicità e di storicità. Il centro della teologia della Risurrezione non è il “sepolcro vuoto”, ma il Cristo Risorto. Il corpo di Gesù non è “evaporato”, e noi non possiamo frenare il mistero, come se dopo la scoperta del sepolcro vuoto non fosse avvenuto più nulla, o come se quanto viene riportato nei Vangeli riguardo alle numerose manifestazioni del Cristo Risorto non sia più da intendersi come un fatto storico. I testimoni oculari narrano con grande concretezza le loro esperienze, e tutti e quattro gli evangelisti le riportano con cura nelle loro redazioni. Certo anche gli apostoli, al primo incontro col Risorto, crederono di vedere un fantasma. Può sembrare quindi normale che, a duemila anni di distanza, per molti uomini di oggi (talvolta anche teologi), la Risurrezione sia ancora un fantasma. Ma Gesù rimproverava quest’incapacità ad accettare il miracolo. Nel Vangelo il Risorto ci tiene a far riconoscere la sua corporeità, stabilendo con i testimoni rapporti diretti, a volte attraverso un contatto fisico (Lc 24,39; Gv 20,27), altre attraverso la condivisione di un pasto (Lc 24,30.41-43; Gv 21,9.13-15).

Com’è possibile negare la fisicità della Risurrezione di fronte ad un Cristo che chiede da mangiare e davanti agli occhi sbigottiti degli Apostoli sgranocchia una porzione di pesce arrostito? (Lc 24,41-43).

Alla luce di tutto questo il Catechismo della Chiesa Cattolica conferma che “l’ipotesi secondo cui la Risurrezione sarebbe stata un “prodotto” della fede (o della credulità) degli Apostoli, non ha fondamento. Al contrario la loro fede è nata – sotto l’azione della grazia divina – dall’esperienza diretta della realtà di Gesù Risorto” (CCC 644). Perciò la Chiesa ha definito una volta per tutte la Risurrezione “un avvenimento reale che ha avuto manifestazioni storicamente constatate” (CCC 639), o un “avvenimento storico constatabile” attraverso i segni e le testimonianze (CCC 647).

E molte, vale la pena ricordare, furono queste testimonianze: quella di Maria di Magdala e le pie donne, che furono le prime ad incontrare il Risorto (Mt 28,9-10; Gv 20,11-18) e ad annunziarlo agli Apostoli; poi anche questi, inizialmente scettici, lo videro (Gv 20,19ss; Mt 28,16ss; Mc 16,14ss; Lc 24,36ss) e finanche l’incredulo Tommaso dovette ricredersi grazie ad un’ulteriore apparizione (Gv 20,24-29); in seguito il Risorto si mostra ancora a diversi discepoli, tra cui Natanaele ed i figli di Zebedeo (Giov 21,1ss) ed anche ai due discepoli di Emmaus che lo riconosceranno solo un attimo prima che sparisse, allo spezzare del pane (Lc 24,13ss). Luca fornisce perfino, nel libro degli Atti, una durata temporale al ciclo delle apparizioni: ben quaranta giorni! Scrive “Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio” (At 1,3). E Paolo, cui pure si manifestò il Cristo Risorto sulla via di Damasco, riporta anche una grandiosa apparizione che coinvolse “più di cinquecento fratelli in una volta” (1Cor.15,5-8).

“Davanti a queste testimonianze” dice il Catechismo della Chiesa Cattolica “è impossibile interpretare la Risurrezione di Cristo al di fuori dell’ordine fisico e non riconoscerla come un avvenimento storico” (CCC 643).

Naturalmente questa risurrezione non fu la semplice rianimazione di un cadavere. Il Catechismo definisce la Risurrezione un avvenimento sia storico sia trascendente (cfr CCC 639), un avvenimento ben diverso dalle altre resurrezioni umane che leggiamo nel testo sacro, come quella di Lazzaro. Cristo non ritorna a vita terrena, sperimentando cose come il dolore fisico, la vecchiaia o la morte. Egli risorge a vita eterna, e pertanto il suo non è soltanto un corpo risorto, ma anche glorificato. Il suo corpo non è più soggetto alle leggi di causa ed effetto della materia, e non perché non sia più materiale, ma perché la sua materia è totalmente sottomessa allo spirito. “Questo corpo autentico e reale possiede” dice il Catechismo “le proprietà nuove di un corpo glorioso; esso non è più situato nello spazio e nel tempo, ma può rendersi presente a suo modo dove e quando vuole, poiché la sua umanità non può più essere trattenuta sulla terra e ormai non appartiene che al dominio divino del Padre. Anche per questa ragione Gesù risorto è sovranamente libero di apparire come vuole: sotto l’aspetto di un giardiniere o sotto altre sembianze che erano familiari ai discepoli , e ciò per suscitare la loro fede” (CCC 645).

“Il corpo di Gesù”, prosegue mirabilmente il Fidei Depositum, “è, nella Risurrezione, colmato della potenza dello Spirito Santo; partecipa alla vita divina nello stato della sua gloria, sì che San Paolo può dire di Cristo che egli è l’‹‹uomo celeste››” (CCC 646).

Ma tutto questo ancora non basta: la Risurrezione fu chiara manifestazione della divinità di Gesù, compimento delle promesse del Padre, irradiazione dello Spirito Santo, ed opera dalla Santissima Trinità.

Inoltre comprendiamo il senso della Risurrezione solo considerandone il valore per noi salvifico: come la Pasqua ebraica liberò dalla schiavitù terrena, quella di Cristo libera dalla schiavitù interiore del peccato. La Risurrezione, dunque, è compimento della nostra Redenzione. Dalla solarità del Cristo Risorto rispunta l’alba perenne per la Chiesa. E questa Luce salvifica irradia tutta l’azione liturgica nei secoli, vivifica tutti quanti i sacramenti a partire dal Battesimo, attua lo stato di grazia in tutte le anime che si uniscono al Corpo Mistico, e le avvia verso lo stato di santità. E’ grazie alla Risurrezione di Cristo che il sacrificio della Croce non resta solo sacrificio, ma diventa in noi, tramite lo Spirito Santo, Grazia operata.

Infine, dobbiamo ricordare che la Risurrezione è sorgente, oltre che garanzia, della nostra vita eterna, della nostra risurrezione futura. Anche a noi, infatti, è dato di risorgere col corpo, come ci promette il nostro Credo. Ma di questo parliamo più avanti.

Gesù ha fondato la Chiesa

Viviamo nell’epoca del fai-da-te religioso, e ciascuno si sente autorizzato a costruirsi una religione personale secondo i propri gusti. Anziché rivolgersi a Dio stesso per chiedere lumi, si pretende di risolvere il problema della molteplicità delle religioni (e della relativa confusione che ne deriva) attingendo qua e là dalle varie dottrine, come ad un supermarket, riempiendo il proprio carrello solo di ciò che più ci piace, come se la Verità non fosse Una, ma possa essere decisa dal soggetto.

Anche il cristianesimo subisce questo triste modello di comportamento, soprattutto quando, pur accettando Gesù Cristo, non si accetta la Chiesa. Poiché quest’atteggiamento di autosufficienza è molto diffuso, vale la pena di evidenziare quell’indissolubile legame che c’è tra Gesù e la Chiesa. Occorre innanzi tutto chiarire che la chiesa non è un grosso club di credenti, un’associazione cui si può appartenere oppure no secondo le simpatie provate verso i componenti. A fondarla non sono stati gli uomini: Gesù stesso ne è il fondatore e il fondamento (“Chiamò a sé i discepoli e ne scelse dodici”, “Tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò la mia Chiesa”,…). Per quali motivi Cristo istituì la Chiesa, se Egli stesso afferma di essere l’unico mediatore tra Dio e gli uomini? Il Catechismo della Chiesa Cattolica indica quattro ragioni (che poi sono anche i quattro compiti, o mandati, affidati alla Chiesa). Eccoli: il mandato della Parola: la Chiesa avrebbe dovuto conservare, tramandare, interpretare il santo Vangelo e le altre Scritture contenenti la Rivelazione di Dio. Anche chi crede nel Gesù senza chiesa, lo può fare solo grazie alla chiesa stessa che ha conservato e tramandato la memoria di Cristo. La sacra Tradizione ha anzi ampliato la nostra conoscenza teologica (“Molte cose ho ancora da dirvi, ma non siete in grado di portarle”, “Lo Spirito di Verità vi condurrà verso la Verità tutta intera”) e grazie all’interpretazione divinamente ispirata del suo Magistero, la Chiesa ha potuto, di Concilio in Concilio, corroborata da santi, fedeli teologi, e mistici dottori, garantire un’unicità di dottrina che ha resistito ai secoli e alle molteplici eresie. Tramite il mandato della Koinonia, ossia della comunità d’amore che unisce i credenti (“Siate una cosa sola come Io e il Padre siamo una sola cosa”, “Io sono la vite, voi siete i tralci”) la Chiesa ha inoltre ricevuto da Cristo il compito di essere la vigna, di costituire cioè un popolo con un’unica anima, una compagnia in cammino che rimanesse unita in Lui dal Suo stesso amore. Chi dice Cristo sì Chiesa no, si rinchiude in una fede privatistica ove il proprio tralcio non fa parte della vite, e vive (ma quanto a lungo?) come una cellula staccata dal corpo, priva di nutrimento spirituale e senza una missione comunitaria.

Gesù conferì alla Chiesa anche il mandato della Liturgia: non voleva che la Salvezza giungesse solo ai suoi contemporanei storici, ma a tutti gli uomini di tutte le epoche (“Prendete e mangiatene tutti…fate questo in memoria di me”, “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi”). La Chiesa dunque non solo annuncia o riunisce, ma anche salva (“Vi farò pescatore di uomini”). Continuando ad elargire tramite i sacramenti lo Spirito Santo, e in particolare continuando a donare il Pane di Vita eterna, Gesù di Nazareth non ha mai smesso di salvarci. Invece la religione del fai-da-te nasconde la gran presunzione di non aver bisogno di salvezza o di potersi salvare da soli.

Il quarto compito affidato da Cristo alla Chiesa è il mandato della Carità. Gli apostoli (di allora come di oggi) devono esercitare una missione di servizio (“Se Io, Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come Io ho fatto a voi”). La chiesa è dunque missionaria, e viene mandata nel mondo non solo ad annunciare, salvare o riunire, ma anche a servire: questi quattro mandati sono infatti strettamente connessi fra loro, e si alimentano a vicenda.

La successione apostolica

Da dove ci viene la garanzia che la Chiesa di oggi sia la stessa di quella fondata da Gesù Cristo? Questa certezza ci viene dalla Successione Apostolica. La Sacra scrittura ci offre vari riferimenti riguardo a questo tema, ma uno di quelli che ci sembra più significativo è quel passo nel libro degli Atti in cui Pietro deve affrontare il problema della sostituzione di Giuda dopo la sua morte (At 1,15-26). Gesù era appena tornato al Padre: i dodici li aveva nominati lui, e come Figlio di Dio aveva l’autorità per farlo. Nessuno fino a quel momento si era permesso, con Gesù ancora sulla terra, di nominare degli apostoli. Ma ora era necessario, altrimenti la Chiesa si sarebbe gradatamente estinta. Pietro allora decise di consultare le Scritture, e fu ispirato dallo Spirito Santo a considerare il Salmo 109, ove numerosi versi si adattavano benissimo alla situazione di Giuda (“sebbene io li abbia amati essi mi accusano senza pietà, mi hanno ripagato male per bene, odio in cambio di amore”, Sl 109,4-5). Ebbene tramite questo salmo Dio gli indicò quale doveva essere il destino dell’empio cui è stato donato un bene che poi rinnega: “il suo ufficio lo prenda un altro”. E quindi Pietro, forte del fatto che Cristo gli aveva trasmesso il potere di aprire e di chiudere, di legare e di sciogliere (Mt 16,19) si alzò in piedi davanti a un’assemblea di 120 persone, lesse il passo di questo salmo, e aggiunse che occorreva scegliere al posto di Giuda “uno tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo in cui dimorò tra noi il Signore Gesù” (At 1,21). La Chiesa apostolica scelse dunque Mattia, “per prendere il posto di questo ministero e apostolato, da cui prevaricò Giuda” (At 1,25).

Non tutti si rendono conto dello spessore teologico di questo brano: si tratta dell’inizio storico della successione apostolica. Queste righe contengono la prova scritturale della continuità della Chiesa. Inoltre, le parole “ufficio” e “ministero” danno testimonianza che gli apostoli avevano la perfetta consapevolezza di non essere solo dei credenti come tutti gli altri discepoli, ma di avere una precisa investitura, di avere ricevuto da Cristo un effettivo mandato, e che tale mandato poteva, anzi doveva, essere trasmesso come in una successione.

Fino allora le successioni erano unicamente di natura temporale, per esempio quelle dei padri verso i figli. Col Cristianesimo invece la successione è di natura spirituale, anche se deriva ugualmente da un “capostipite” storico che è Cristo, e da una madre in grado di generare figli che è la Chiesa.

Il Concilio Vaticano II a tal proposito ha affermato: “Come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli Apostoli” (SC 6). E aggiunge: “Affinché il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, gli Apostoli lasciarono come successori i Vescovi, ad essi affidando il proprio compito di magistero” (DV 7).

Ed anche il Catechismo della Chiesa Cattolica sottolinea: “Donando lo Spirito Santo agli Apostoli, Cristo risorto conferisce loro il proprio potere di santificazione: diventano segni sacramentali di Cristo. Per la potenza dello stesso Spirito Santo, essi conferiscono tale potere ai loro successori. Questa successione apostolica struttura tutta la vita liturgica della Chiesa; essa stessa è sacramentale, trasmessa attraverso il sacramento dell’Ordine” (CCC 1087).

La successione apostolica è dunque il tramite dello Spirito Santo, che attraverso di essa dà vita alla liturgia e forma alla Tradizione.

La Tradizione

Cosa s’intende per Tradizione in ambito teologico? Non s’intende certo il significato comune che diamo abitualmente alla parola “tradizione”, come quando si dice, per esempio, che una determinata realtà “ha una grande tradizione alle spalle”, quasi a volersi affidare al passato, giusto in quanto passato, e quindi in qualche modo autorevole, collaudato. Per Tradizione, in ambito cattolico, s’intende molto di più, s’intende addirittura uno dei due punti di riferimento della Fede (l’altro è la Sacra Scrittura). Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che il “depositum fidei” (ossia il “deposito della fede”, ciò in cui crediamo) è contenuto sia nella Sacra Scrittura che nella Sacra Tradizione (CCC 84). Per capire come si giunge ad un’affermazione così forte, occorre capire le origini della Tradizione. Infatti è volontà stessa di Gesù che la sua Parola non muoia ma cammini nel tempo. Dice la Dei Verbum: “la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi” (Conc. Ecum. Vat. II, DV 8). E il Catechismo aggiunge: “Questa trasmissione viva, compiuta nello Spirito Santo, è chiamata Tradizione, in quanto è distinta dalla Sacra Scrittura, sebbene ad essa è strettamente legata” (CCC 78). Tramite la Tradizione la Chiesa, nella sua vita, nella sua dottrina e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni, tutto ciò che essa ha ricevuto, tutto ciò che è, tutto ciò che crede (cfr DV 8). I Padri della Chiesa hanno attestato la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega (cfr DV 8). In tal modo la comunicazione che il Padre ha fatto di sé, mediante il suo Verbo nello Spirito Santo, rimane sempre presente e operante nella Chiesa (cfr CCC 79).

“Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio diletto; e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta intera la verità e fa risiedere in essi abbondantemente la Parola di Cristo” (DV 8).

La Chiesa dunque non trasmette la Rivelazione senza prenderne in qualche modo parte attiva. La Rivelazione passa attraverso la Chiesa come attraverso un tralcio; e questo tralcio prolunga, estende, ci mette del suo. Anche se la linfa originaria è Cristo con la sua vita santificante, sotto l’azione dello Spirito Santo la Chiesa offre ancora le sue labbra a Cristo. “In questo modo la Tradizione non si presenta come una trasmissione meccanica della memoria di fatti e parole del passato, ma come lo spazio umano in cui il credente fa esperienza della presenza attuale ed efficace di Dio nella propria storia. Con la viva tradizione si rinnova l’esperienza originaria dell’incontro con Dio, nella memoria di quanto egli ha operato in passato e nell’attesa di un compimento definitivo nel futuro” (Teologia Fondamentale – La Chiesa, Mario Crociata, Piemme).

Non a caso, in passato si è spesso parlato nientemeno che di due fonti della Rivelazione: Sacra Scrittura e Tradizione. In realtà il Concilio di Trento, nella IV sessione del 1546, con il decreto “Adozione delle Sacre Scritture e delle tradizioni degli apostoli” respinse questa teoria delle due fonti, anche perché offriva il fianco a Lutero che sosteneva la “sola scriptura”. La Chiesa preferisce parlare di sorgente comune: Scrittura e Tradizione sono tra loro strettamente congiunte e comunicanti perché “ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo stesso fine” (DV 9). “La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio” (DV 10). “L’una e l’altra rendono presente e fecondo nella Chiesa il Mistero di Cristo, il quale ha promesso di rimanere con i suoi ‹‹tutti i giorni, fino alla fine del mondo›› (Mt 28,20)” (CCC 80).

Il Magistero della Chiesa

La parola “magistero” viene da “magister, maestro”, uno degli attributi che il Vangelo riconosce a Gesù. In che modo Gesù continua ad ammaestrarci dopo il suo ritorno al Padre? Tramite il Magistero. In forza di che il Magistero attinge a questa promessa? In forza della Successione Apostolica e della Tradizione (argomenti da noi considerati nei due capitoli precedenti). La possibilità di una permanenza della Verità sulla terra è desiderio di Gesù stesso: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre: lo Spirito di Verità” (Gv 14,16-17). E aggiunge: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (Gv 14,26). L’assistenza di Gesù ai suoi apostoli è dunque confermata nel tempo, e non solo perché la Chiesa da lui fondata potesse ricordare ma anche testimoniare (“mi renderete testimonianza”, Gv 15,27). Del resto, se questa permanenza della Verità sulla terra non fosse stata garantita, in conformità a che cosa saremmo stati giudicati? E chi avrebbe potuto salvarsi? La sola ragione è fallibile; il Magistero è invece infallibile perché, illuminato da una continua pentecoste, gode “per sempre” della promessa di Gesù: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla Verità tutta intera” (Gv 16,12-13). Respingere il Magistero significa respingere lo stesso Gesù, perché “Chi ascolta voi ascolta Me, chi disprezza voi disprezza Me” (Lc 10,16).

L’Islam e il Protestantesimo hanno cercato di costruire una religione senza magistero, ma non ci sono riusciti, finendo per ricorrere lo stesso a forme d’autorità costruite dal basso. Invece la Chiesa dei primi secoli riconosce subito i vescovi come successori degli apostoli anche nell’esercizio dell’insegnamento. Quest’autorità costruita dall’alto “non è però al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso” (Concilio Vaticano II, DV,10).

All’interno del Magistero siamo soliti distinguere tra episcopato (i vescovi, successori degli apostoli) e primato (il Papa, come successore di Pietro), entrambi di diritto divino e strettamente connessi. Distinguiamo anche tra magistero particolare (per esempio quello di un Vescovo verso la sua diocesi) e magistero universale (cioè quello di tutti i vescovi verso tutti i cristiani); il Concilio Vaticano I ha definito l’infallibilità di quest’ultimo. Anche Il Concilio Vaticano II conferma: “L’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale, quando questi esercita il supremo Magistero col successore di Pietro” (LG 25). E questo avviene, per esempio, in occasione di un Concilio Ecumenico: in tal caso si parla di magistero straordinario. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Il grado più alto nella partecipazione all’autorità di Cristo è assicurato dal carisma dell’infallibilità. Essa si estende tanto quanto il deposito della divina Rivelazione; essa si estende anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale” (CCC 2035). E ancora :”Per mantenere la Chiesa nella purezza della fede trasmessa dagli Apostoli, Cristo, che è la Verità, ha voluto rendere la sua chiesa partecipe della propria infallibilità. […] Di questa infallibilità il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti i fedeli, proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale” (CCC 889-891; LG 25). Anche il magistero straordinario del Papa è dunque coperto da infallibilità, e questo avviene “quando parla dalla cattedra, cioè quando adempiendo al suo ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani, per la sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardo alla fede e ai costumi deve essere tenuta da tutta la Chiesa, per l’assistenza divina a lui promessa nel beato Pietro”.

Naturalmente il senso di tutto questo non va colto considerando gli uomini in sé ma l’infallibilità della verità di Dio.

I Sacramenti e lo stato di grazia

La teologia affronta assai poco il tema dello stato di grazia, che invece è il luogo dell’incontro tra l’uomo e Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo definisce dono soprannaturale, che permette all’uomo la partecipazione alla vita di Dio. Lo stato di grazia è pertanto lo stato dell’uomo in Dio. E’ il tralcio che rimane nella Vite (Cristo), e da questa riceve vita di grazia. E’ infatti un dono della Grazia, che è l’azione amorosa di Dio sull’uomo, azione che trasforma e deifica l’esistenza umana, conducendola così nello Spirito Santo secondo il disegno del Padre.

Lo stato di grazia è dunque quel regno di Dio già in mezzo a noi di cui parla il Vangelo, che sulla terra comprende tutti gli uomini che vivono in stato di grazia, e li unisce misticamente verso la santità.

Battesimo e confessione costituiscono la soglia d’accesso a questo stato privilegiato, nutrito continuamente dall’Eucarestia.

Anche se ciò non viene compreso sufficientemente, quello cui l’uomo va incontro tramite questi sacramenti è un effettivo cambiamento di stato: la natura dell’uomo viene quasi modificata, o meglio restituita a se stessa, come appunto nella trasformazione da un legno secco a un legno vivo. Uno dei cambiamenti più importanti che viene operato è il riallineamento mente-cuore. La mente, intesa come sede della ragione, viene abitualmente adoperata dall’uomo come cosa a sé, separata dal cuore a sua volta inteso come sede dell’amore e in particolare del sacro. Lo stato di grazia conferisce invece all’uomo la capacità di farli operare in sintonia, per cui i pensieri tornano ad essere allineati secondo le finalità dell’amore. Si ha pertanto la riattivazione dell’Intelletto, che è quel modo di funzionare della mente quando questa è illuminata dal cuore. L’uomo in simile stato può accedere a nuove forme di conoscenza, che la filosofia riesce assai poco ad indagare, specie se anch’essa non è intrapresa col soccorso della Grazia. Eppure tale processo potrebbe interessare assai quegli studiosi che cercano una nuova epistemologia in grado di interpretare il mondo. La via per una maggiore conoscenza dunque c’è, ma solo per chi sa andare oltre il semplice sforzo razionalistico. E non si tratta di un procedimento gnostico di autoilluminazione: è la Grazia che opera, e poiché la Luce di Dio è Amore, viene colta e goduta solo per apertura del cuore e disponibilità all’amore. Amando, l’uomo conosce. Ecco perché le maggiori conoscenze, anche filosofiche, sono sempre state riservate ai santi. Non esiste per l’uomo un modo di accedere ai beni dell’Intelletto senza un percorso di santità che ci introduca in profondità nello stato di grazia, che in fondo è uno stato angelico. Gli Angeli vivono già spontaneamente in tale condizione, e non conoscono scissione o dissidio tra mente e cuore. Ogni loro ragionamento è un ragionamento d’amore. La natura umana si trova invece svantaggiata da una situazione di peccato originale, con una mente lasciata senza luci a se stessa, e con un cuore senza guida dell’intelletto e pertanto esposto alle passioni. Ma se l’uomo comprende che l’unico scopo della vita è lo stato di grazia (al di fuori del quale la vita perde di senso), ecco che entra nella dimensione di quella sapienza del cuore che lo rende concittadino della città celeste e testimone anticipatore della Parusia finale, regno definitivo della Grazia.

Il Battesimo

Lo stato di grazia diventa uno stato accessibile grazie al dono dei sacramenti che Gesù ha fatto alla Chiesa. E’ per merito di questi sette “segni sacri”, istituiti da Lui, che ci viene data la possibilità di vivere un altro stato d’essere.

Se fossimo consapevoli di questo non esiteremmo mai, per il bene nostro e dei nostri figli, ad accostarci a questi sacramenti. Per esempio, il santo Battesimo conferisce la possibilità di abitare, dopo la vita del corpo, quella dello spirito.

Gesù fu piuttosto esigente per quanto riguardava il Battesimo: “In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5). Fu Gesù stesso a chiedere che il Battesimo fosse portato “in tutte le nazioni” (Mt 28,19). E nel Catechismo leggiamo il perché: “Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio” (CCC 1213) laddove il termine “rigenerati” significa “generati di nuovo”. Si diventa “figli nel Figlio”. Chi è battezzato “rinasce dall’alto” (Gv 3,3), da legno secco diventa legno vivo, innestato nella vite di Cristo che gli infonde la linfa soprannaturale. Il Santo Battesimo modifica l’origine dell’uomo, lo rende originato da Dio. La filosofia continua a chiedersi da dove veniamo, la Fede risponde a questa domanda modificando la provenienza di chi se la pone. Il Battesimo trasforma la natura dell’essere umano, lo divinizza, ne muta in sostanza la connotazione ontologica. E questo avviene così profondamente che l’io non se ne accorge, perché tutto accade a livelli assai più profondi di quelli del pensiero. Anzi, rimangono nel battezzato le conseguenze temporali del peccato, quali le sofferenze, le malattie, la morte, o le fragilità inerenti alla vita come le debolezze del carattere, ed anche un’inclinazione al peccato che la Tradizione chiama concupiscenza (CCC 1264). Ma quest’ultima, lasciata per la prova, non può nuocere quelli che non vi acconsentono o vi si oppongono. Il Santo Battesimo ci viene incontro cancellando la colpa derivata dal peccato originale e restituendo all’anima lo stato di grazia, simboleggiato dalla veste bianca che viene consegnata al battezzato. Anticamente il rito del Battesimo si svolgeva durante la notte di Pasqua, affinché il catecumeno (in genere adulto) potesse far morire l’uomo vecchio immergendolo (baptizein in greco significa immergere) nella morte di Cristo: ci si seppelliva con Lui per poi risorgere con Lui. I tre gradini a scendere di cui era provvisto il bordo della vasca battesimale indicavano i tre giorni della Passione; prima di farli il catecumeno si voltava un’ultima volta verso ovest e rinunciava a Satana sputando verso le tenebre (sacra sputatio); poi si girava (conversione) verso la luce dell’alba, e cioè verso oriente (da orior, sorgere/nascere, ove il Sole è simbolo del Cristo Risorto) e si immergeva integralmente nell’acqua con la sua veste bianca. I battisteri erano di forma ottagonale, a ricordo dell’ottavo giorno (il primo dopo la creazione) ma soprattutto in memoria della Risurrezione, compiutasi “il giorno dopo il sabato”, e dunque l’ottavo giorno.

Rialzatosi e “rivestitosi di luce”, dopo aver professato col Credo la sua fede, il catecumeno era così diventato un “illuminato” da Dio. San Giustino amava chiamare tale lavacro illuminazione “perché coloro che ricevono questo insegnamento [catechetico] vengono illuminati nella mente” (Apologiae, 1,61,12), in quanto hanno ricevuto il Verbo, la “Luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), che li ha resi “figli della luce”, “luce” essi stessi (Ef 5,8). Emerge qui il ruolo particolare dello Spirito Santo, di cui il battezzato diviene tabernacolo vivente. L’unzione con il sacro crisma significa appunto il dono dello Spirito Santo, tanto che nelle chiese orientali l’unzione post-battesimale costituisce già sacramento della Cresima, mentre nella liturgia romana questo crisma “annunzia” quella seconda unzione che verrà impartita dal Vescovo a conferma (Confermazione) della prima che viene così portata a compimento (CCC 1242). Questa partecipazione a Cristo (che è unto sacerdote, profeta e re) rende i cristiani Sue membra, “incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione”.

La Confessione

La parola confessione deriva dal verbo latino confiteor, che racchiude in sé tre significati: 1) ammettere le proprie colpe (utilizzato anche in ambito penale); 2) fare confessione di fede (p.es. confiteri Christum); 3) rivelarsi (e qui si potrebbe dire: non solo il rivelarsi dell’uomo come peccatore, ma il rivelarsi di Cristo come perdono).

Gesù diceva di se stesso: “Il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati” (Mc 2,10), e infatti lo esercitava: “Ti sono rimessi i tuoi peccati!” (Lc 7,48). Sulla Croce Cristo versa il suo Sangue per espiare i peccati degli uomini, ed apparendo risorto agli apostoli dona alla sua Chiesa l’immenso potere del Perdono che scaturisce dalle sue piaghe e dal suo costato: “Mostrò loro le mani e il costato, e i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: ‘Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi.’ Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: ‘Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi’.” (Gv 20, 19-23).

L’apostolo Paolo aveva perfetta consapevolezza di questo mandato: “Tutto è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della Riconciliazione; è stato Dio infatti a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe, e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio!” (2Cor 5,18-20). La Chiesa cattolica chiama infatti questo ministero Sacramento della Riconciliazione. Ma la confessione ha anche altri nomi: Sacramento della conversione (a prevenire ogni automatismo: il sacramento ha efficacia se l’uomo cambia davvero rotta), Sacramento della Penitenza (il cristiano deve essere pentito, provare dolore per i peccati, promettere fedeltà, irrobustirsi con digiuni e buone opere), Sacramento del Perdono (perché attraverso l’assoluzione il penitente sia convinto che è stato realmente perdonato, che anche le colpe più gravi, se sinceramente ravveduto, sono state cancellate, e pertanto può vivere in Pace) (Cfr CCC 1423-1424).

Il sacramento della Confessione è un grandissimo dono: ha infatti il potere di conferire all’anima lo stato di Grazia. Abbiamo già avuto occasione di spiegare in che cosa consista questo particolare stato di partecipazione alla vita divina. In realtà esso viene già donato al Battesimo, ma a causa del peccato viene perduto, e questo comporta la necessità di ripristinarlo con la Riconciliazione sacramentale. La disperazione e l’angoscia che affliggono l’anima che vive nella colpa, vengono trasformate immediatamente in gioia e letizia. Nel Vangelo c’è una bellissima parabola che illustra questo ritorno a Dio, ed è quella del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-32). In essa il figlio più giovane lasciò il padre per andare a condurre una vita di dissoluzione in “un paese lontano” (lo stato di dis-grazia); dopo aver perso tutti i suoi beni esteriori e interiori, ridotto in semi-schiavitù e in condizione di miseria spirituale, si ricordò di quanto era bello stare presso il padre (Dio), allora “rientrò in se stesso” (il ravvedimento) e “partì incamminandosi verso suo padre” (la conversione). Il racconto presenta tutti gli elementi necessari per la preparazione della confessione, dall’atteggiamento di umiltà (“non sono più degno d’essere chiamato tuo figlio”) al riconoscimento delle proprie colpe tramite l’esame di coscienza (“ho peccato contro il Cielo e contro di te”). E l’amore di quel padre che perdona col suo abbraccio fece al figlio, prosegue la parabola, tre regali: un anello (simbolo della nuzialità restituita, della regalità spirituale), un paio di sandali (simbolo della riacquistata dignità a calpestare la sacra terra di Dio), una veste nuova (simbolo dell’anima purificata, richiamo della veste battesimale). Ecco tutto ciò che ci accade durante la confessione. E coloro che “hanno lavato le loro tuniche purificandole col Sangue dell’Agnello” (Ap 7,14) potranno stare “di fronte al trono di Dio”.

L’Eucaristia

La vita di Gesù, fin dalla nascita, è contrassegnata dal pane. Betlemme, in ebraico, significa “Casa del pane”. E, appena nato, Gesù viene riposto in una mangiatoia. Il tema del farsi cibo e del banchetto affiorano spesso nel vangelo. La vita pubblica del Messia inizia con un banchetto (le nozze di Cana, Gv 2,1ss) e termina con un altro banchetto che pure potrebbe essere chiamato nuziale: l’ultima Cena, durante la quale Gesù stringe la sua Alleanza facendosi pane per noi.

Una prefigurazione dell’Eucaristia possiamo già vederla nei miracoli di moltiplicazione dei pani e dei pesci (che furono almeno due) ove “tutti mangiarono e furono saziati” (Mt 14,20) ma, come dirà poi Gesù, “IO sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame” (Gv 6,35). Cristo sfama l’uomo tutto intero: corpo e spirito. L’uomo è sempre esistenzialmente smarrito riguardo alla sua fame: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?” (Mt 15,33), ma Cristo risponde in modo totale, e non solo trasformandosi in pane, ma rendendo i suoi stessi discepoli dispensatori sia del pane materiale (“Dategli voi stessi da mangiare”: Mt 14,16) sia di quello spirituale (“Fate questo in memoria di me”: Lc 22,19). Tutto fu dato in abbondanza, ma tutto era prezioso: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto” (Gv 6,12). E ci fu grande avanzo: nella prima moltiplicazione avanzarono 12 ceste di pane (Mt 14,20), nella seconda 7 (Mt 15,37). Sia il numero “12” (3X4) che il numero “7” (3+4) sono nella Bibbia simboli che esprimono l’alleanza tra il divino (rappresentato dal numero “3”) e l’umano (rappresentato abitualmente dal numero “4”). Chi si nutre del Pane di Dio entra infatti nell’Alleanza sponsale tra l’uomo e Dio.

Già nell’antica alleanza era stato donato, tramite Mosè, un pane celeste (la manna di Es 16,4), ma “non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, bensì il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo […], io sono il pane vivo, disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,32-33; 6, 51). Nella stessa cena in cui Gesù istituì l’Eucaristia, i dodici apostoli (prefigurati dalle 12 ceste di pane) ricevettero il mandato a continuarne la celebrazione (Mt 26,26ss; Mc 14,22ss; Lc 22,19ss), e, di apostolo in apostolo, ancora oggi la Chiesa celebra i Misteri eucaristici, durante i quali Cristo rinnova la sua eterna promessa compiendo ogni volta il miracolo della transustanziazione (che vuol semplicemente dire passaggio da una sostanza a un’altra sostanza); al momento della consacrazione, infatti, pane e vino sono modificati nella loro sostanza per diventare presenza reale di Cristo, anche se l’apparenza rimane quella del pane e del vino (salvo nei cosiddetti miracoli eucaristici, ove anche la vera sostanza si rende in parte visibile). Il pane eucaristico diventa dunque, durante la Messa, corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo (CCC 1373ss). Tutti i partecipanti divengono misticamente compresenti all’Ultima Cena, come nuovi invitati del Signore, e il sacrificio della Croce si rinnova, o meglio se ne diventa misteriosamente partecipi, come se il tempo intercorso non esistesse.

Tutto questo ci fa comprendere il grande rispetto e la grande devozione che la cattolicità, con la sua arte e la sua liturgia, ha sempre rivolto verso i misteri eucaristici, e ci accorgiamo di come stride ogni forma di trasandatezza in tal senso. Una nota del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi canonici intervenne qualche anno fa per raccomandare “che qualsiasi sciatteria o trascuratezza, segno di diminuita consapevolezza della presenza eucaristica, sia bandita accuratamente dal comportamento dei sacri ministri e dei fedeli. Anzi appare necessario che nella nostra epoca, caratterizzata dalla fretta anche nel rapporto personale con Dio, la catechesi riconduca il popolo cristiano al completo culto eucaristico, che non si riduce alla partecipazione alla Santa Messa comunicando con le dovute disposizioni, ma comprende anche la frequente adorazione, personale e comunitaria, del Santissimo Sacramento, e la cura amorosa perché il tabernacolo, in cui si conserva l’eucaristia, sia collocato in un altare o luogo della chiesa ben visibile, davvero nobile e debitamente ornato, in modo da costituire il centro d’attrazione d’ogni cuore innamorato di Cristo”.

L’Eucaristia è dunque fonte e culmine di tutta la liturgia della Chiesa, ed è chiamata anche Comunione perché nutrendosi del Cristo si diventa tutti, in Cristo, un solo corpo (il corpo mistico) e pertanto si è in comunione con tutti i fratelli così santificati, oltre che con la gloria stessa di Dio e dei suoi santi.

Il cristiano che chiede umilmente al Padre “dacci oggi il nostro pane quotidiano” e si nutre di questo cibo degli angeli acquisisce forza e grazia per mantenersi nelle virtù e meglio affrontare il suo combattimento spirituale. Chi lo mangia non muore (Gv 6,50) anzi riceve la Vita: “In verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno… Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui… Colui che mangia di me vivrà per me…Chi mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,53-58).

E nell’eternità ancor più ci ciberemo di Dio, perché, come disse il figlio prodigo “in casa di mio padre hanno pane in abbondanza” (Lc 15,17).

La Cresima e il dono dello Spirito Santo

Ciò che più ci stupisce dello Spirito Santo è l’inafferrabilità di un “tu” con cui entrare in relazione. Mentre in Gesù il “tu” assume un volto umano dai lineamenti visibili, nello Spirito Santo il “tu” sembra sottrarsi alla nostra comprensione; purissimamente divino com’è ci appare insondabile, infinito e senza contorni. Come entrare in relazione con una simile realtà? Credo che questo sia un interrogativo di molti cristiani, che spesso emarginano lo Spirito Santo escludendolo dalle loro preghiere, o riducendolo col pensiero a “cosa”, “energia”, “emanazione”. L’articolo davanti (lo Spirito Santo) a volte induce a dimenticare che questo Paraclito è persona. Anzi, persona divina. Tuttavia la mancanza di una relazione di tipo ordinario con questa persona divina non è un difetto insito nella nostra fede, ma la modalità stessa con cui lo Spirito si rapporta con noi. Mi spiegherò meglio. Con l’incarnazione del Verbo si verifica nella storia il fatto più esaltante di tutti i tempi: Dio si fa uomo, si rende riconoscibile, cammina al nostro fianco. E’ ciò che la Bibbia chiama l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Con la discesa dello Spirito Santo (a partire dal giorno di Pentecoste e fino all’ultima cresima che celebriamo) la Chiesa passa dall’esperienza del Dio-con-noi a quella del Dio-in-noi. Vi manderò un Consolatore, promise Gesù (Gv 15,26), e la maggiore consolazione è che il dono di questo Spirito genera la presenza viva di Dio nel nostro cuore, portandoci al superamento del semplice rapporto dialogico che fino a quel momento avevamo con la divinità. Il “tu”, infatti, per quanto nobile possa essere, rappresenta sempre un’alterità, la relazione con una presenza esterna al nostro io. Lo Spirito Santo, invece, quasi si fonde col nostro io, coabita coi nostri pensieri e li divinizza. La sua azione costruisce progressivamente il Dio-in-noi, modellandoci nel Cristo. La sua grazia ci conferisce i modi di sentire di Gesù, i suoi modi di pensare, di amare.

La caduta della relazione duale e la coabitazione di Dio all’interno del nostro stesso io è il più grande dono che ci può essere dato. Grazie a questa amorevole condivisione della natura divina smettiamo di collocare Dio all’esterno, di sentirlo “un altro”, e quasi assaporiamo il misterioso significato dell’unione ipostatica fra le persone divine. Tre persone, ma un solo Dio.

Questo inestimabile dono è presentato dal nuovo Catechismo in tante bellissime pagine (in particolare ai numeri 683-741 per quanto riguarda lo Spirito Santo, e 1285-1314 per quanto riguarda la Cresima). Ma rimane evidente come le parole non possano mai racchiuderne tutto l’inesauribile mistero dello Spirito Santo. Il cristiano che vive in santità è colto dalla vertigine solo a considerare alcuni dei Suoi modi d’agire, come quando Egli scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato, dona la virtù e la grazia, elargisce premi e consolazioni, procura salvezza del corpo e dello spirito, conferisce i sette santi doni, allinea la mente col cuore, combina la luce con l’amore, fa pregustare anticipazioni del Paradiso. Quale bellezza salverà il mondo se non questa?

Già nel Battesimo siamo stati immersi nello Spirito Santo, ma la necessità di una Confermazione emerge dalla stessa Sacra Scrittura: “Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imposero loro le mani e quelli ricevettero lo Spirito Santo” (At 8,15-17). Anche se nella chiesa ortodossa è prevalso l’uso di conferire unitariamente Battesimo e Cresima, questo brano della Scrittura sottolinea che si tratta di due sacramenti distinguibili.

Ma quello che conta è vivere i sacramenti, affinché non si riducano a doni accantonati come pacchi, consegnati e poi rimasti chiusi. Beato il cristiano che sa dischiudere tali doni soprannaturali, e sa attingere tutte le ricchezze che scaturiscono dalla profondità del cuore di Dio.

Il sacramento del Matrimonio

La Sacra Scrittura si apre con la creazione dell’uomo e della donna ad immagine e somiglianza di Dio e si chiude con la visione delle nozze dell’Agnello (Ap 19,7.9). La missione terrena di Gesù si apre col matrimonio di Cana e si chiude con le nozze tra Cristo e la Chiesa nell’alleanza eucaristica.

Nella Bibbia, l’unione sigillata da Dio tra l’uomo e la donna è dunque segno dell’unione amorosa tra Dio e l’umanità. Nel cristianesimo antico la forma della celebrazione già richiamava questo concetto col disporre che le nozze avvenissero “al cospetto della Chiesa”. Sappiamo che i sinodi più antichi e i primi papi, sulle orme di Cristo e di Paolo, già emanavano prescrizioni riguardo al matrimonio; per esempio S. Callisto, eletto nel 217, rifiutava le unioni dei divorziati, ammesse dall’autorità civile. Gli antichi padri parlano di uno stato matrimoniale apportatore di grazia per mezzo di Cristo. Vi era quindi fin dall’inizio consapevolezza della sacramentalità del matrimonio, tant’è vero che esso è incluso tra i sette sacramenti perfino nelle chiese orientali, che già molto presto si erano separate dalla Chiesa romana (alcune fin dal IV secolo). Il Concilio Vaticano II ricorda che “Dio stesso è l’autore del matrimonio” (Gaudium et spes, 48). Il sacramento che la Chiesa da duemila anni celebra unisce dunque i coniugi in Dio: per questo tale unione viene definita indissolubile, in quanto la sostanza dell’unione è Dio stesso, e Dio non può “venire sciolto”. Noi possiamo tradire il nostro patto, ma Dio vi rimane fedele per sempre. I sacramenti sono atti di Dio, non azioni nostre. Nemmeno la somma autorità della Chiesa, cui Cristo ha donato ogni potere di aprire e chiudere, può annullare il sacramento del matrimonio. “Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”, disse Cristo a Pietro (Mt 16, 19), eppure è significativo notare che né Pietro né alcuno dei 264 successori al soglio pontificio si servirono mai di questo potente mandato per sciogliere un solo matrimonio, anche a costo di tremende conseguenze (come accadde con lo scisma anglicano del ‘500, quando il papa negò ad Enrico VIII lo scioglimento del suo matrimonio). Erroneamente taluni attribuiscono questa facoltà al tribunale ecclesiastico della Sacra Rota, che invece si limita, se interpellato, a verificare la nullità del sacramento, cioè ad accertare se particolari situazioni di costrizione od impedimenti relativi alla legge naturale od ecclesiastica abbiano compromesso la libertà del consenso; come ogni sacramento, infatti, la libertà dell’uomo è prerogativa indispensabile: se si scopre che questa era assente o viziata, il sacramento risulta mai avvenuto, nonostante le apparenze. Ma se la libertà è stata pienamente esercitata “quello che Dio ha unito l’uomo non divida” perché gli sposi “non sono più due ma una carne sola” (Mt 19,6). Il sì di due laici battezzati è dunque più potente d’ogni potere, perché è un sì all’amore definitivo di Dio. Sono gli sposi, infatti, a celebrare il sacramento del matrimonio. Accogliendo Dio come fondamento e sostanza del loro amore, elevano la propria unione all’ambito soprannaturale, cui la Grazia promette ogni assistenza. Dal punto di vista terreno l’amore umano può anche terminare, ma dal punto di vista divino “quando il vino termina Dio lo ricrea”. Le crisi della coppia sono, in questa luce, viste non come indebolimenti dell’unione ma come prove da cui, con la preghiera, se ne può uscire rafforzati. Anche ostacoli apparentemente elevatissimi sono sfide ad innalzare l’amore in modo elevatissimo. Tuttavia il matrimonio cristiano non va presentato solo all’interno di una dimensione della gioia: vi è anche un’inevitabile dimensione della croce. Talvolta la pastorale matrimoniale tende a sottolineare molto la prima e poco la seconda; ma se si prescinde dalla teologia della croce si rischia di privare del senso esistenziale tutte quelle unioni che, senza volontà o colpa, si sono trasformate in dolore (per esempio per morte o abbandono del coniuge, infedeltà, prevaricazione,…). Spesso, in questi casi, l’unica risorsa per il coniuge cristiano e fedele è la Croce di Cristo. Ma anche in tutti gli altri casi va ricordato che l’amore è sempre esposizione all’altro della propria vulnerabilità, e si è crocifissi di più proprio da chi più amiamo. Del resto il fine del matrimonio, più che la felicità terrena, è la realizzazione del Regno. E il Regno gli sposi lo costruiscono o con la loro missionarietà amorosa, l’apertura alla vita, l’educazione cristiana dei figli, o col silenzioso abbandono ai piedi della croce, offrendo a Dio i propri dolori e rimanendo al proprio posto nonostante tutto. Gloria e martirio sono infatti i due volti complementari con cui l’Amore si affaccia nella storia degli uomini, perché siano condotti dall’Agnello al trionfo delle nozze celesti.

Ordine: sacramento della Successione

Il sacramento dell’Ordine è l’anello di congiunzione tra Cristo e la Chiesa di oggi. Gesù diede l’investitura ai primi dodici apostoli, ma lo Spirito Santo che Egli fece scendere su di loro conferì anche la facoltà di nominare, essi stessi, altri apostoli (un esempio di questo lo vediamo già con la sostituzione di Giuda: At 1,15-26). Inizia quindi quella catena della successione apostolica a cui il sacramento dell’Ordine aggiunge di volta in volta altri anelli fino agli attuali vescovi (e sacerdoti) presenti nel mondo. Senza questo sacramento la Chiesa cesserebbe di essere apostolica, o addirittura non esisterebbe: al massimo resterebbe una grande assemblea di credenti che tramite il Battesimo si tramanda la fede, ma, priva di magistero e di tradizione conciliare, rischierebbe di estinguersi presto, o di scivolare facilmente nell’errore (come è capitato nelle correnti religiose che di questo sacramento hanno tentato di fare a meno).

Per fortuna la Chiesa fin dagli inizi ebbe piena coscienza del suo mandato. Clemente Romano già nell’anno 96 scriveva: “Cristo proviene da Dio, gli apostoli da Cristo e i vescovi discendono dagli apostoli”. Abbiamo già parlato della successione apostolica, per cui ci limitiamo a ricordare una frase di Ireneo scritta verso il 200 d.C.: “Mediante la successione apostolica è giunta a noi la verità, e la tradizione apostolica è stata resa nota a tutto il mondo. Basta attenersi a loro (i vescovi), in tutto il mondo, se si vuole vedere la verità. Noi infatti possiamo elencare i vescovi che sono stati istituiti dagli apostoli e dai loro successori fino ai giorni nostri” (Adversus Haereses III,3,1). Nel primo Concilio di Nicea (325) e nel primo di Costantinopoli (381) si disciplina con cura il sacramento dell’Ordine: alcuni canoni ne illustrano la relazione col celibato, altri con la giurisdizione territoriale. L’ordinazione si presenta fin dall’inizio amministrata in tre gradi: episcopato, presbiterato, e diaconato. Vescovi, sacerdoti e diaconi possono ricevere questo sacramento solo dai vescovi, che lo impartiscono mediante la preghiera consacratoria e l’imposizione delle mani. (Scriveva San Paolo a Timoteo: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani”).

Ma quali effetti comporta questo sacro segno in chi lo riceve? Innanzi tutto una particolare configurazione a Cristo Sacerdote, operata dalla Grazia dello Spirito Santo. Inoltre l’inserimento in un “ordo” (da cui la parola “ordine”) che è il corpo costituito della Chiesa apostolica: chi riceve l’ordinatio gode dello stesso mandato degli apostoli e ne riceve l’investitura. L’ordinazione, che non è un “diritto”, ma un dono immeritato, abilita ad essere rappresentanti di Cristo. Il Catechismo illustra bene i legami col ministero della Parola, del Culto, della Liturgia, oppure della Carità (CCC 1533-1589). La grande responsabilità di essere divenuti prolungamento dell’azione salvifica di Dio e della funzione sacerdotale di Gesù, comporta la necessità che il chiamato corrisponda col massimo sforzo di santità. Scriveva il santo Curato d’Ars: “E’ il sacerdote che continua l’opera di redenzione sulla terra… Se si comprendesse bene questo si morrebbe d’amore… Il Sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù”.

L’Unzione degli infermi

“La malattia e il dolore sono sempre stati tra i massimi problemi dell’umanità. La malattia è più che una transitoria perturbazione della salute. E’ un evento umano complessivo, corporeo-spirituale, che riguarda l’uomo in profondità”: così il Catechismo Cattolico degli Adulti, della Conferenza Episcopale Tedesca, affronta il settimo Sacramento della Chiesa Cattolica: l’Unzione degli infermi. E aggiunge: “Nella malattia l’uomo sperimenta la sua impotenza, limitatezza e finitezza. Viene strappato alla vita normale, condannato all’inattività e avverte allora che la nostra vita non è nelle nostre mani”.

E il Catechismo della Chiesa Cattolica sottolinea: “La malattia può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sé, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma essa può anche rendere la persona più matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale per volgersi verso ciò che lo è. Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a Lui” (CCC 1501).

L’Unzione degli infermi, in quanto sacramento, è strumento di redenzione, e dinanzi a queste situazioni di dolore persegue la salvezza, ma la salvezza di tutto l’uomo. E’ incontro efficace col Cristo, e, in particolare, con Cristo Medico. I Vangeli raccontano che Gesù ha operato moltissime guarigioni, tanto che spesso i malati cercavano di toccarlo “perché da Lui usciva una forza che sanava tutti” (Lc 6,19). Così, nei sacramenti, Cristo continua a “toccarci” per guarirci. “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17). La sua guarigione è rivolta innanzitutto allo spirito, e infatti ai malati chiedeva di credere. Come segno di questa guarigione interiore operava spesso anche quella fisica, e ordinò agli apostoli di imitarlo guarendo i malati (cfr Mt 10,8). E i dodici, “partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano” (Mc 6,12-13). Nella tradizione liturgica sia orientale che occidentale si hanno fin dall’antichità testimonianze di unzioni di infermi praticate con olio benedetto. Il Concilio di Firenze del 1431-45, elencando per gli Armeni i sette sacramenti, dice: “L’estrema unzione ci guarisce spiritualmente e anche corporalmente, come più giova all’anima” (DS, FI, VIII, Bolla di unione degli Armeni).

Il Concilio Vaticano II, nel 1963, corresse la tendenza a collocare questo sacramento solo in punto di morte (cfr SC 73), e nella stessa linea si mosse pure Paolo VI con la Costituzione apostolica Sacram Unctionem Infirmorum scritta nel ’72. Il Catechismo precisa ulteriormente: “Se un ammalato che ha ricevuto l’Unzione riacquista la salute, può, in caso di un’altra grave malattia, ricevere nuovamente questo sacramento. Nel corso della stessa malattia il sacramento può essere ripetuto se si verifica un peggioramento. E’ opportuno ricevere l’unzione degli infermi prima di un intervento chirurgico rischioso. Lo stesso vale per le persone anziane la cui debolezza si accentua” (CCC 1515).

Tuttavia “neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie” (CCC 1508). Non è quindi fondato ritenere che la mancanza di preghiera (o di “preghiera insistente”) sia l’unica causa di una mancata guarigione. Dio non è il servitore dei nostri desideri. Anche ai santi ha talvolta negato delle grazie. A San Paolo rispose: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta infatti pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). E l’Apostolo apprese così bene la lezione da arrivare a dire: “Io completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24): è la figura del cristiano che non si premura tanto di chiedere guarigioni per il proprio corpo quanto di guarire il corpo di Cristo che è la chiesa. E’ qui che si ha l’uomo perfettamente guarito.

La vita nuova in Cristo

Cos’è il cristianesimo, al di là delle formule? In queste pagine abbiamo esposto i contenuti della fede, le caratteristiche della Chiesa, i sacramenti, eppure tutto questo non basta a fare di noi dei credenti. Ma allora cosa ci chiede veramente Dio? Cosa vuol dire credere? Non vuol dire certo “ritenere vere un certo numero di cose”: questo può essere tutt’al più il primo passo. Gli apostoli hanno seguito Cristo appena lo hanno incontrato, prima ancora di conoscere tutte le cose da credere. Certo poi le hanno credute, ma la sostanza della loro fede era un incontro. Non si è cristiani senza aver incontrato Cristo. Ma se l’incontro è un dono, è una chiamata, che possiamo fare noi? Innanzi tutto tenerci pronti, predisporre il terreno del nostro cuore alla semina, tenere ordinata la “casa” come il servo nell’attesa del padrone. Poi pregare, chiedergli umilmente di venire a visitarci, di donarci la luce dello Spirito Santo, la forza di trasformarci.

Dire “io credo” deve significare “io ti accolgo, io vivo la Tua vita, io mi lascio vivere da Te”.

Dire “io credo” significa dire “io ti amo, Tu sei il senso della mia esistenza, lo scopo per cui vivo, il fondamento di tutto”.

Credere è raddrizzare ogni desiderio, orientare ogni pensiero al bene, accorgersi che la propria vita è una missione.

Dire “io credo” è essere perdutamente innamorati degli altri, avere a cuore le loro esistenze, patire per le loro debolezze, esserne crocifissi.

Chi crede è un costruttore del Regno, vede il mondo con gli occhi di Dio, si unisce a Cristo nel disegno di salvezza delle anime, ponendosi al Suo fianco come “pescatore di uomini”.

Chi crede è al servizio del prossimo, si prodiga nella carità, accetta le mansioni più umili, ma non cerca nei risultati il fine ultimo di tutto.

Chi crede ha come fine ultimo solo Dio, lo mette al primo posto in ogni cosa, nella giornata, nella vita, nella gerarchia dei valori, e non brama che d’immergersi in Lui, di essere “perfetto come il Padre”. Vigila costantemente sul proprio cuore per mantenerlo puro, è nemico dei vizi, persegue con costanza le virtù, pur sapendo di non poter conquistare nulla senza la Grazia.

Il cristiano che dice “io credo” sta dicendo “io Ti seguo, io ho fiducia in Te, io mi abbandono a Te”.

Si affida alla volontà del Padre imitando il Cristo, a Lui si arrende, a Lui si consegna, da Lui si lascia consumare totalmente nell’Amore.

Se egli davvero crede, allora è Dio a dirgli “Io credo in te”. E’ Dio a specchiarsi in lui, congiungendolo teneramente a Sé, colmandolo di grazie.

Il mistero della Trinità

“Tutta l’Economia divina è l’opera comune delle tre Persone divine”, ci spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 258). Tuttavia si sente parlare poco della Trinità.

Certo bisogna ammettere che dinanzi al Mistero la nostra mente preferisce sgattaiolare via. Sebbene la fede nella Trinità affondi la sua antichissima origine nella predicazione apostolica e nelle prime catechesi battesimali, l’idea di un Dio in tre Persone genera da sempre smarrimento, talvolta anche scandalo: se il secondo deriva dal non avere fede, il primo deriva però dall’averne poca. Certo dobbiamo fare i conti anche con le nostre imperfette rappresentazioni mentali: la parola persona evoca subito in noi l’immagine di un uomo, per cui tre uomini certo non possono essere uno. A volte la nostra immaginazione oscilla tra una Trimurti politeista e l’immagine di un solo Dio ma con tre teste. Ma la Trinità non è una triade. Occorre sgombrare innanzitutto il campo da equivoci, ricordando che il termine persona in filosofia indica quella realtà che permette all’essere di dire di se stesso: Io sono. Il Dio della Rivelazione biblica non è un dio impersonale come nel buddismo o nel panteismo, ma, oltre a possedere l’essere, sa di essere, ha una coscienza di sé, una volontà e un io che gli permette appunto di essere persona. Ora se noi prendiamo queste due parole, l’io e il sono (che poi sono alla base di quel nome di Dio rivelato a Mosè, JHWH) potremmo dire che la prima esprime la Persona, e la seconda l’Essere. L’Essere, nella sua totalità, è quanto le tre Persone divine hanno in comune. “Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto alla natura” (XI Concilio di Toledo del 675). E questo quanto all’Essere. Quanto alle Persone invece, queste “sono realmente distinte fra loro”, “non sono semplicemente nomi che indicano modalità dell’essere divino” (CCC 254). Del resto un Dio che non fosse trino, sarebbe un Dio solitario, privo di quell’attributo che più ce lo identifica: l’Amore. L’Amore richiede non solo l’esistenza di un io che ama, ma anche quella di un tu che viene amato. E poiché l’Amore tra il Padre e il Figlio, essendo un amore divino, è perfetto (tanto che da essere esso pure Dio, in quanto solo Dio è perfetto) ogni distanza tra le Persone è pienamente colmata. “Tutto è una sola cosa in loro, salvo la relazione” (Concilio di Firenze del 1442). A questo punto possiamo concludere con le bellissime parole che San Gregorio Nazianzeno rivolse ai catecumeni di Costantinopoli (Orationes): “Innanzi tutto conservatemi questo prezioso deposito, per il quale io vivo e combatto, con il quale voglio morire, che mi rende capace di sopportare ogni male e di disprezzare tutti i piaceri: intendo dire la professione di fede nel Padre, nel Figlio, e nello Spirito Santo. Io oggi ve la affido. Con essa fra poco vi immergerò nell’acqua e da essa vi trarrò. Ve la dono, questa professione, come compagna e patrona di tutta la vostra vita”.

La resurrezione dei corpi

Anche noi risorgeremo. E non solo con lo spirito. E nemmeno tramite una risurrezione corporea come quella di Lazzaro. Bensì apparterremo a una realtà unica di spirito redento e corpo glorificato, simile a quella già manifestata in Gesù Cristo. Se non crediamo in questo non siamo cristiani, bensì sadducei. I sadducei si scontravano coi farisei negando la risurrezione dei corpi. Ma Gesù, le scritture, e i Vangeli promettono per i giusti una vera risurrezione. I primi cristiani vi credevano pienamente. Nelle sue lettere Paolo scrive: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). “Se a causa di un uomo venne la morte [Adamo] a causa di un uomo [Cristo] verrà anche la risurrezione dei morti” (1Cor 15,21). “Ma qualcuno dirà: come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno? …Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro è lo splendore dei corpi terrestri….Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile;…Così porteremo l’immagine dell’uomo celeste….Tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; …e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. E’ necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità”(1Cor 15,20-53). “Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli” (2Cor 5,1).

I Padri della Chiesa e la Tradizione nei secoli hanno confermato la fede nella risurrezione dei corpi; Tertulliano nel suo De resurrectione carnis scrive: “La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali”. Questa fede si sedimentò anche nel nostro Credo: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Il Concilio Lateranense IV (1215) insegna che “tutti risorgeremo con il proprio corpo che qui portiamo” (DS,801). Il Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 990 recita: “La risurrezione della carne significa che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell’anima immortale, ma che anche i nostri corpi mortali riprenderanno vita”. “Il ‘come’ supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nella fede. Ma la nostra partecipazione all’Eucaristia ci fa già pregustare la trasfigurazione del nostro corpo per opera di Cristo”(CCC 1000). Inutile quindi cercare di immaginare, occorre anzi evitare i due estremi: “da una parte un materialismo primitivo il quale suppone che nella risurrezione noi riprenderemo la stessa materia, la stessa carne e le stesse ossa che abbiamo ora in questa vita. Ora sappiamo che già in questa vita la nostra materia muta ogni sette anni circa. L’identità della persona tra questa e l’altra vita non può dunque dipendere dall’identità della materia….Dall’altra, questa trasformazione non si può pensare nel senso di uno spiritualismo alieno dal mondo e unicamente fatto di spirito. Si tratta di una nuova corporeità, trasformata e trasfigurata dallo Spirito di Dio” (Catechismo Cattolico degli Adulti, Conferenza Episcopale Tedesca, V 2,3). Di conseguenza è superfluo farci domande inutili: del tipo “che aspetto avremo”? Cristo Risorto appariva con l’aspetto che egli desiderava, poiché la sua corporeità era del tutto sottomessa alla volontà dello spirito. Anzi, come abbiamo visto scompariva anche agli sguardi a suo piacimento. Ed anche sarebbe fuorviante domandarci “dove dimorerà il nostro corpo? In Cielo o sulla terra?” La separazione tra Cielo è terra è una dicotomia contingente che appartiene al regno del peccato, e non alla Gerusalemme Celeste. Le apparizioni di Cristo, l’Ascensione e, se vogliamo, le apparizioni di Maria, ci indicano delle modalità di manifestazione che però non ci sottraggono al Mistero. Certo è che in questo Eden, mai distrutto dalla mano di Dio ma anzi custodito dai cherubini (Gn 3,24) godremo dei frutti dell’albero della vita e saremo irradiati dalla luce del Risorto.

La Gloria di Dio

In queste ultime pagine abbiamo affrontato la resurrezione di Cristo e quella futura degli uomini; vorremmo concludere parlando della “Gloria di Dio”, di cui queste resurrezioni sono espressione. Ci sembra sia un argomento troppo spesso trascurato dalle nostre catechesi ed omelie.

La preoccupazione umana verso le cose contingenti e la generale tendenza ad interessarsi solo verso ciò che nel cristianesimo conduce ad un’utilità sociale, porta infatti a dimenticare che il fondamento e il fine ultimo di tutto quanto esiste è la Gloria di Dio. L’agire dell’uomo, per quanto nobile possa essere, non è un agire cristiano se non ha come meta la Gloria di Dio. La carità verso i poveri, l’aiuto verso gli emarginati o i bisognosi, ed ogni altra forma di servizio come anche di apostolato, acquistano una direzione e un senso se la speranza che ci anima è quella di vedere un giorno tutti questi fratelli partecipare alla Gloria di Dio. Ciò che di bello e di buono noi riusciamo a realizzare nel tempo deve essere visto solo come il primo precario frammento di un Regno che completerà in gloria quello che noi abbiamo fatto. Anzi, è proprio per questa ragione che ogni opera umana merita la massima attenzione. Perché se è vero che le nostre azioni e il nostro annuncio sono solo un provvisorio e imperfetto segmento di cui non controlliamo il destino, è anche vero che tutto in Cielo sarà ripreso, valorizzato e perfezionato dall’Amore onnipotente di Dio che glorifica tutto ciò che gli somiglia.

Se non intende questo, anche il cristiano meglio intenzionato finisce nello scoraggiamento, finisce per dire: “Ho fatto e fatto ma non sono riuscito a cambiare il mondo”, cadendo così in quella mentalità efficientista che limita tutto al contingente, e per la quale è buono ed ha senso solo ciò che produce un successo visibile. Ma il credente che in stato di grazia è già, in parte, cittadino del Cielo, sa che, anche in assenza di frutti visibili, Dio asciugherà ogni lacrima dai suoi occhi perché “il Regno di Dio giungerà alla sua pienezza” e “i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima” (CCC 1042).

Tutto questo il cristiano può già pregustarlo nell’Eucaristia, che la chiesa antica chiamava “pegno della Gloria futura” e che il Catechismo definisce “anticipazione della Gloria del Cielo” (CCC 1402): infatti, lasciandosi trasfigurare dal Pane di vita eterna, il credente anticipa in sé e nel suo agire i tratti di quella Gloria.

E’ questa la radice di quella virtù teologale che chiamiamo Speranza, anche se spesso la riduciamo ad una semplice attesa di un qualche futuro migliore. In realtà non è in gioco solo la nostra felicità, sebbene questa ci sarà conferita in misura immensa e per tutta l’eternità. Nel Paradiso tutto il nostro essere si dilaterà infinitamente al godimento celeste, ma la Gloria di Dio è molto più di questo. Tutto il molteplice s’incontra e si unisce in questo Mistero, sublimandosi nell’Amore irradiato dallo Spirito Santo; tutto l’universo appare avvolto dalla luce ineffabile della Trinità, e le rende gloria nella moltitudine degli spiriti.

Dio sarebbe nella gloria anche senza le creature, ma la storia personale di salvezza di ciascuna di queste, una volta glorificata, diventerà paradiso vicendevole per tutti i beati.

Se imparassimo a vedere nelle persone quello che esse in gloria saranno, riusciremmo ad amarle oltre ogni tentazione di scoraggiamento o rancore. Riusciremmo a capire che esse non sono quali ci appaiono, riusciremmo a scorgere in loro le membra risorte del Cristo.

Ed anche tutte le cose che ci circondano ci svelerebbero la loro natura di segni, che nascondono e svelano i lineamenti della Città celeste.