“Morì e fu sepolto”

Qui il Credo sprofonda nell’abisso della morte di Dio, si seppellisce con essa. Non la morte di Dio come la intendeva Nice (Dio che muore nel cuore dell’uomo), ma anzi la sua soluzione, una morte che resuscita il cuore dell’uomo. Non possiamo leggere il mistero della morte di Gesù separato da quello della sua Risurrezione. Cristo, morendo, rinasce in noi. La Croce è l’albero della Vita che reinnesta in sé gli umani tralci strappati dal peccato e dalla morte in esso contenuta. Con la morte in croce si esprime il culmine della Passione, parola bellissima perché è formata da altre due grandi parole: Amore e Dolore. Patire, nel linguaggio del Vangelo, vuol dire soffrire con amore, soffrire per amore. Quando diciamo “Patì sotto Ponzio Pilato”, diciamo tutto, perché in quel patì è racchiuso l’intero mistero della nostra salvezza. E’ un vocabolo che contiene il colmo del dolore e il colmo dell’amore. In teologia adoperiamo anche qui il termine mistero, ad indicare che la nostra mente non ha la capacità d’immaginare verità così alte: in questo caso non è nemmeno in grado d’intuire la misura di questo amore, così come non è in grado di comprendere l’infinitudine del dolore. Si pensa tutt’al più al dolore materiale dei chiodi, ma quel grido “Dio mio perchè mi hai abbandonato” indica nello spirito, più che nel corpo, la vera agonia di Gesù. Sappiamo quanto soffersero i santi nei deserti spirituali in cui, messi alla prova, Dio si sottraeva ai loro sguardi interiori; essi soffrivano in modo indicibile perché si erano svuotati di tutto per riempirsi di Dio: quando perciò Dio sembrava sottrarsi da loro lasciandoli “vuoti”, essi soffrivano come se la loro stessa anima gli venisse tolta! Se dunque pensiamo al Cristo, che per la sua particolare e consustanziale unione col Padre ne era infinitamente colmo, si capisce che il dolore di spoliazione interiore fu veramente immenso, come se si aprisse nella sua anima squarciata un vuoto infinito! Nonostante quest’abisso di dolore gli venisse già prospettato nel Getsemani, Gesù vinse la paura perchè era consumato da un amore altrettanto infinito, dal desiderio intrattenibile di salvarci. Nel nostro linguaggio umano usiamo, infatti, la parola “passione” anche ad indicare un grande desiderio; in questo caso si tratta del desiderio ardente di Gesù di patire per noi: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come desidero che fosse già acceso!”(Lc 12,49). Il fuoco che egli ardentemente desiderava accendere sulla terra, era il fuoco del suo amore per noi. Voleva che ardesse nel nostro petto, come sperimentarono i due discepoli di Emmaus dopo l’incontro col Risorto: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino?”(Lc 24,32). Ma affinché questo fosse possibile, era necessario passare attraverso il battesimo di sangue della morte in croce: “C’è un battesimo che devo ricevere, e come sono in ansia finché non sia compiuto!”(Lc 12,50). Gesù era travolto dalla passione per noi, dallo struggente desiderio di patire per averci con sé per sempre, per stringerci nell’amore per l’eternità. Passione per la passione. Che grandezza vi è racchiusa nel cuore di Cristo in croce, grandezza che in parte ci fu rivelata anche attraverso i mistici, tra cui S. Margherita Maria Alacoque (1647-1690), che ebbe delle rivelazioni speciali riguardo al Sacro Cuore. Anche suor Faustina Kowalska (1905-1938) fu fulminata dall’amore che trapassava il Cuore di Cristo e poi il suo. Se la teologia non dice di questo amore, essa si riduce a scienza fredda del Cristo. Ed anche quando si parla delle stimmate di santi come San Pio da Pietrelcina, o quando s’illustra la Sacra Sindone, non si può ridurre tutto al semplice esame scientifico dei dati, tacendo il mistero di quell’amore senza il quale ogni ferita perde il suo significato di salvezza. Occorre sempre incastonare quei dati, teologici o scientifici che siano, all’interno della teologia della Passione, ed alla luce del divino Amore. Spiegando anche che la passione di Cristo non rimase eroismo solitario, ma si circondò di una compagnia; di un “patire con”: è questo il significato profondo della parola compassione. Perché noi tutti, sani od infermi, siamo chiamati ad essere compartecipi di questa stessa passione (cfr CCC 618). Le nostre ferite possono in Cristo diventare finestre attraverso cui irradia la redenzione della croce. La morte di Gesù c’invita ad offrire il nostro dolore e la nostra vita sull’altare del suo sacrificio. E’ questo il senso dell’offertorio durante la Santa Messa! Non la monetina lasciata cadere nel cestino, ma la nostra intera vita lasciata cadere nella fornace ardente del cuore di Gesù, l’offerta dei nostri dolori per il disegno di salvezza delle anime: se questo non viene detto, la messa si riduce a puro rito. Se nessuno ci spiega più questo vero senso del Corpo Mistico, allora sì, Dio è morto, ed ha ragione Nice. Ma Dio vive perché noi offriamo le nostre membra a questo corpo, ed accettiamo di essere crocefissi con Lui, trapassati dal suo amore ardente, seppelliti con Lui per poi in lui essere risorti.